Archetipi, aure (Elémire Zolla)

In questa pagina tratta dal libro: – Archetipi. Aure. Verità segrete. Dioniso errante. Tutto ciò che conosciamo ignorandolo, Ediz. Marsilio, Venezia 1981, – Elemire Zolla ci indica quello spazio coscienziale in cui l’ego scompare e per dare luogo all’immedesimazione nel Sé. Zolla esprime con elegante prosa una dimensione che è esperienza frequente delle sedute di Rebirthing Transpersonale. Non è raro infatti che durante le sessioni di respirazione si acceda all’essenza stessa della coscienza, uno stato in cui si percepisce la realtà senza il filtro del pensiero e del tempo e si gode della pura consapevolezza libera da condizionamenti.

Un maestro vedantico, T.M.P. Mahadevan, suggeriva di immergersi meditando nel senso della frase «ho saporitamente dormito», specie su chi, su che cosa sia l’io sottinteso. E un io che si dovrebbe saper cogliere astraendo sia dall’io di veglia che dall’io onirico. Si può far cadere l’accento della frase sul primo membro, dicendo: «io ho dormito saporitamente», e approfondire i significati della meraviglia che si prova per essere quell’io, per la continuità che lo lega all’io di veglia che su di esso sta meditando. Sul discrimine fra veglia e sonno, al risveglio o nell’assopimento, aleggia al di sopra e della veglia e del sogno una traccia dell’io dormiente, persiste o si preannuncia questo io indeterminato, unificato, universale, al di qua di ogni identificazione o proiezione, e tuttavia non del tutto insussistente: un «come» piuttosto che un «qualcosa». Non è insensato, infatti, dire che si dormirà o si è dormito «saporitamente». L’esperienza metafisica è l’esperienza di questo io in qualche modo sussistente nel sonno senza sogni. E’ lecito obiettare che non si sperimenta in modo diretto questo io assopito, perché se ne serba soltanto un ricordo, e nulla comprova che la rimembranza sia autentica. Si è talvolta affermato che nemmeno dell’io onirico, avendone soltanto memoria, si è mai sicuri. Si dimentica però che anche della veglia ci si sovviene soltanto, sia pure a tempi brevissimi: non esiste l’immediatezza, tutto è mediato, memorizzato. Gli anestetici bloccano il ricordo, non la sensazione stessa, il cui engramma, sotto ipnosi, può emergere in pieno. Si dimentica che di sopore è compenetrata la veglia: essa lampeggia in modo discontinuo su un fondo di sonno. Sia un lavoro abituale che un’opera rapinosamente ispirata si eseguono in modo trasognato, da addormentati. Come nei concerti l’apice supremo è un silenzio nel quale è come se si raccogliesse in uno la miriade di pause che costella e compone la musica, così il sonno altro non è che l’apice in cui si raccolgono tutti gl’intervalli di sopore nella veglia, i quali formano come il fondo oro su cui si staglia la discontinuità dell’autocoscienza.

L’Imitazione di Cristo propone come tema di meditazione il quesito: Dove sei quando non sei presente a te stesso? Era una vecchia tecnica devozionale. Si è automaticamente efficienti, lucidi al di là dell’attenzione riflessa, nell’empito entusiasta: la veglia più intensa coincide col sonno profondo. Si esclama talvolta: «Ho perso la nozione dello spazio e del tempo», luogo comune degli innamorati, dei combattenti, degli artisti, di chiunque sia così assorto in ciò che vive da agire come un sonnambulo. Al culmine dell’impegno di veglia si dorme: quando se ne sia perfettamente consapevoli, si è in grado di avvertire nitidamente l’io quasi inafferrabile di «io ho dormito saporitamente», un io elusivo, sottile, quello stesso dei rapimenti estatici, dei momenti nei quali si scivola beatamente lungo un cammino predestinato. Quali opere meravigliose si compiono del resto nel sopore notturno, quali masse smisurate di inani superfluità si scaricano allora nel nulla, quali liberazioni non si ottengono! Basterebbe, al magico istante del transito fra sonno e risveglio, far tesoro della sensazione d’aver saporitamente dormito: sapendola trattenere in cuore, si godrebbe nel pieno tumulto del giorno di una pace profonda. Ma si rilutta ad ammettere che l’io del sonno sia l’identità ideale: una mente servile crede che l’autocoscienza sia superiore all’abbandono, che lo sforzo sia più degno della sprezzatura, come se l’essere non precedesse ontologicamente la coscienza. Una volta che si sia compreso il significato del nostro io di sonno, si può rispondere alla sfida zen: “Mostrami la faccia che avevi prima di venire al mondo”.

Tratto da: E. Zolla, Archetipi, Aure, Verità segrete, Dioniso Errante, Ediz. Marsilio

Le origini dello Zen (Alan Watts)

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Come è impossibile spiegare la bellezza di un tramonto a un uomo cieco dalla nascita, così è impossibile ai saggi trovare le parole capaci di esprimere la loro saggezza agli uomini di intelligenza inferiore. La saggezza dei saggi non sta, infatti nel loro insegnamento; altrimenti chiunque potrebbe diventare saggio solo leggendo il Bhagavad Gita, i Dialoghi di Platone o le scritture buddiste. In realtà, potremmo studiare questi libri per tutta la vita senza diventare per nulla più saggi, perché cercare l’Illuminazione nelle parole e nelle idee è (per usare una frase del dottor Trigant Burrow) “è come sperare che la vista di un menù influisca sui processi interni di un uomo affamato e lo soddisfi.” Però, nulla è più facile che confondere la saggezza di un saggio con la sua dottrina. Perché chi non comprende la verità può facilmente scambiare per verità la spiegazione che un altro uomo gli dà di ciò che ha compreso. E tuttavia essa non è la verità, così come un cartello stradale non è la città di cui esso indica la direzione. Gautama il Buddha (l’Illuminato) si guardò bene dal descrivere l’Illuminazione che egli raggiunse mentre sedeva una notte sotto un gigantesco albero di fico a Gaya e si narra che, interrogato sui fondamentali misteri dell’universo, “mantenne un nobile silenzio”. Non si stancò mai di dire che la sua dottrina (Dharma) voleva mostrare solo la Via verso l’Illuminazione e non la proclamò mai una rivelazione dell’Illuminazione.

Di qui i versi buddisti:

Quando ti interrogano curiosi, cercando di sapere che cosa Esso sia,
Non affermare nulla, non negare nulla.
Perché ogni cosa affermata non è vera.
E ogni cosa negata non è vera.
Come potrà qualcuno dire con verità che cosa può essere,
Finché egli stesso non ha pienamente raggiunto Ciò che E’?
E dopo che l’ha raggiunto, qual parola si può mandare da una Regione
Dove il carro della parola non trova una via su cui correre?
Dunque alle loro domande offri il silenzio soltanto,
Il silenzio… è un dito che indica la via.

Però, i seguaci del Buddha hanno cercato l’Illuminazione nel dito, invece di andare in silenzio verso il luogo che esso indica; hanno riverito e seguito i suoi detti tramandati, come se fossero il reliquario della sua saggezza, e così ne hanno fatto non solo un reliquario, ma la tomba in cui la morta carcassa di quella saggezza è sepolta. Ma l’Illuminazione è una cosa viva, che non può essere irrigidita in parole; e perciò lo scopo che la scuola buddista Zen si propone è di penetrare oltre le parole e le idee per riportare in vita la visione originale del Buddha. Considera questa visione come l’unica cosa importante, e le scritture soltanto mezzi, espedienti temporanei per mostrare dove quella visione può essere ritrovata. Non cadere mai nell’errore di scambiare gli insegnamenti con la saggezza, perché lo Zen è essenzialmente quel “qualcosa” che determina la differenza fra un Buddha e un uomo comune; è l’Illuminazione contrapposta alla dottrina.

La Psicologia Transpersonale e la dimensione spirituale (S. Grof)

La psicologia transpersonale ha raccolto molte prove che suggeriscono che lo sviluppo psicologico può andare oltre un buon adattamento interpersonale e sociale e ad un’adeguata funzione sessuale dell’età adulta. L’Autore che ha scritto su questo nel modo più articolato è Ken Wilber. Nei suoi libri ci ha offerto una stimolante e comprensiva sintesi delle varie scuole della psicologia occidentale e dei sistemi spirituali. Ha descritto nei dettagli gli stadi dello sviluppo psicologico, il sottile, il causale e l’assoluto. Poiché tutti questi livelli implicano la dimensione spirituale come elemento critico, richiedono che la spiritualità sia vista come manifestazione di salute e di evoluzione, invece che come sintomo di mancanza di realismo o di psicopatologia.

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La tendenza della psichiatria occidentale a guardare alla salute mentale semplicemente come all’assenza di sintomi dev’essere radicalmente rivista. Nel nuovo paradigma i sintomi emozionali e psicosomatici sono visti come espressioni del processo di guarigione dell’organismo e non manifestazioni di disordine. Ovviamente questo si applica solamente ai disturbi “funzionali” o psicologici, e non chiaramente a condizioni organiche come tumori, infezioni o patologie vascolari cerebrali.
Neppure è applicabile a certi stati che sono chiaramente manifestazioni di malattie mentali, come certe gravi paranoie. Questo nuovo paradigma può essere descritto come “omeopatico”. Nel sistema di medicina alternativa conosciuto come omeopatia, i sintomi sono considerati espressione di salute, non di malattia.
La terapia omeopatica consiste in una temporanea intensificazione dei sintomi al fine di attivare la totalità dell’Essere. Tale approccio comporta una profonda guarigione e una positiva trasformazione della personalità invece che un impoverimento della vitalità e del funzionamento che accompagnano la soppressione farmacologica dei sintomi. L’enfasi sul lavoro costruttivo con i sintomi invece della loro abituale soppressione è la principale differenza fra le strategie basate sulla nuova coscienza e quelle impiegate dalla psichiatria ufficiale.
Con le nuove strategie possiamo fare ben di più che rimuovere i sintomi o raggiungere lo scopo della psicoanalisi definita da Freud nella sua famosa affermazione: “trasformare l’immensa sofferenza del nevrotico nell’ordinaria miseria della vita quotidiana”. Che certamente non è un obiettivo molto ambizioso, soprattutto se si considera il tempo, il denaro e l’energia che ci vogliono per sottoporsi ad una psicoanalisi. Tuttavia per attivare la salute mentale positiva, l’aumento dell’entusiasmo, la gioia di vivere, la vitalità, la creatività, bisogna aprire la dimensione spirituale dell’esistenza. Abraham Maslow ha condotto una lunga ricerca su molte centinaia di soggetti che avevano avuto esperienze mistiche spontanee, o “esperienze picco”, come le definiva lui.
Ha dimostrato che esse portavano ad un’auto-realizzazione e ad un’auto-comprensione e a livelli superiori di sviluppo maggiori di quelli di cui parla la psicologia convenzionale. E questo ci porta al terzo punto, il problema della spiritualità e delle esperienze mistiche. E’ una questione che rappresenta la differenza principale fra la psichiatria tradizionale e la psicologia transpersonale. La psichiatria ufficiale si basa su una visione materialista del mondo di tipo cartesiano-newtoniano che afferma che la storia dell’universo è essenzialmente la storia della materia in evoluzione. La sola cosa realmente esistente è la materia e la vita, la coscienza e l’intelligenza sono degli accidentali e insignificanti prodotti secondari. In una simile visione del mondo non c’è spazio per la spiritualità. Essere spirituali significa essere non istruiti, all’oscuro delle scoperte scientifiche circa la natura dell’Universo, significa indugiare nella superstizione, nel pensiero primitivo o magico. La psicoanalisi tradizionale interpreta la spiritualità come una regressione, una fissazione ad uno stadio infantile, un passo indietro nello sviluppo piuttosto che un passo in avanti. In questo contesto il concetto di Dio è interpretato come una proiezione nel Cielo dell’immagine infantile del padre.
L’interesse nel rituale religioso è visto come analogo al comportamento ossessivo-compulsivo del nevrotico e spiegato come regressione all’analogo stadio dello sviluppo libidico. La differenza fondamentale fra la psichiatria tradizionale e la psicologia transpersonale è che quest’ultima considera la spiritualità una dimensione intrinseca della psiche umana e un fattore critico nello schema universale delle cose. Questa conclusione non è una sorta di credenza irrazionale o un’asserzione metafisica.
E’ basata sullo studio sistematico degli stati non ordinari di coscienza nei quali abbiamo esperienze dirette delle dimensioni spirituali, queste esperienze si dividono in due distinte categorie. Nella prima ci sono le esperienze del Divino Immanente, si tratta di una percezione diretta dell’unità che sta dietro il mondo di separazione e una realizzazione che ciò che stiamo vivendo come realtà materiale è la manifestazione dell’energia creativa cosmica. La seconda categoria comprende esperienze del Divino Trascendentale, percepiamo dimensioni di realtà che normalmente sono nascoste ai nostri sensi, come visioni di divinità o di figure archetipiche come potrebbe chiamarle C.G. Jung, e visioni di vari elementi mitologici.

Stanislav Grof

Commento di F. Falzoni: Questa ultima asserzione delle due categorie di percezione del Divino è una definizione limitata e forse imprecisa, in quanto il Divino trascendente è vissuto nella forma più alta oltre gli archetipi (che Lo rappresentano) ed in essenza è la realizzazione del Sé (atman-Brahman) esperita nel non dualismo. Anche la prima categoria dell’esperienza del Divino immanente (che può essere sia dualistica, sia non duale) anch’essa dipende dal livello di coscienza con cui è esperita. Per questo mi sembra che parlare di due sole modalità sia limitare le prospettive reali di queste esperienze. Wilber descrive i livelli superiori nelle categorie: psichico, sottile, causale e non duale e questa descrizione di Grof prende in considerazione solo i primi due livelli. Grof dice: “L’Autore che ha scritto su questo nel modo più articolato è Ken Wilber. Nei suoi libri ci ha offerto una stimolante e comprensiva sintesi delle varie scuole della psicologia occidentale e dei sistemi spirituali”. Sembra però che non ne abbia del tutto approfondito l’opera per quanto riguarda la spiritualità profondaPersonalmente ho ammirazione e stima per entrambi questi autori e trovo molto buono quest’articolo nonostante questa imprecisione.

La coscienza dell’Unità (Ken Wilber)

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La coscienza dell’unità è semplicemente la consapevolezza del territorio reale del non-confine. Per quanto possa sembrare semplice, è estremamente difficile discutere in termini adeguati della consapevolezza del non-confine o della coscienza dell‘unità, e ciò perché il nostro linguaggio, il mezzo in cui si muove tutta la discussione verbale, è un linguaggio fatto di confini.

Come abbiamo già visto, le parole, i simboli e i pensieri stessi, in realtà, altro non sono che confini. Anche dicendo: “la realtà è la consapevolezza del non-confine” si crea una distinzione tra confine e non-confine! Che “la realtà è senza confini” è vero, purché non si dimentichi che la consapevolezza del non-confine è una consapevolezza diretta, immediata e non verbale, e non è assolutamente una teoria puramente filosofica…

Il confine primario tra sé e non sé, è di importanza così fondamentale che tutti gli altri confini ne dipendono. Non si possono distinguere dei confini tra le cose, se prima non abbiamo distinto noi stessi dalle cose. Ogni confine che tu crei dipende dalla tua esistenza separata, cioè, dal confine primario tra sé e non sé.

Di certo, tutti i confini rappresentano un ostacolo per la coscienza dell’unità, ma, poiché tutti i confini dipendono dal confine primario, vedere traverso questo, è come vedere attraverso tutti. In un certo senso, possiamo considerarla una posizione di vantaggio, perché se dovessimo affrontare tutti i confini separatamente, uno alla volta, impiegheremmo tutta la vita, o forse diverse vite, per riuscire a dissolverli e ottenere la “liberazione delle coppie”. Invece, mirando al confine primo, il nostro compito si semplifica enormemente. E’ come se l’insieme di tutti i nostri confini costituisse una piramide capovolta fatta di vari blocchi, i quali poggiano sul blocco posto alla sommità. Togliendo quell’unico blocco, tutta la costruzione crollerà…

Come disse l’arcivescovo di Cambrai, Fenelon, “Non vi è illusione più pericolosa delle fantasie con le quali l’uomo cerca di evitare l’illusione“. Invece di presupporre l’esistenza del confine primario e poi di procedere cercando di eliminarlo, cercheremo prima di tutto di cercare il confine stesso. E se veramente si tratta di un’illusione, non ne troveremo traccia. Potremmo poi riconoscere spontaneamente che ciò che credevamo ostacolasse la coscienza dell’unità, non è mai esistito. Come vedremo, tale intuizione è già un barlume della consapevolezza del non-confine.

Vediamo ora cosa significa esattamente cercare il confine primario; significa ricercare attentamente quella sensazione di essere un sé distinto, un essere separato che prova e percepisce, distinto dalle esperienze e dalle sensazioni. Intendo dire che se cerchiamo attentamente tale “sé” non lo troveremo; e poiché il sentirsi un sé isolato appare come l’ostacolo maggiore alla coscienza dell’unità, ricercarlo e non trovarlo vuol dire, allo stesso tempo, intravedere la coscienza dell’unità.

Notate cosa disse il gran saggio buddista Padmasambhava: “Se quando lo si cerca, il ricercatore non si trova, allora si è raggiunto lo scopo ricercato e il fine della ricerca stessa.”

Da “Oltre i Confini” di Ken Wilber

Approcci Oriente-Occidente alla psicoterapia (T. Hora)

Questo brano di psicoterapia esistenziale di Thomas Hora, che tradussi molti anni fa per i miei seminari didattici, indica l’atteggiamento che dovrebbe avere un bravo terapeuta ed è particolarmente adatto per chi offre sedute di Rebirthing Transpersonale.

Tratto da: Awakening the Heart, compilato da J. Welwood,  Shambhala Publications , 1996, mia libera traduzione. 

PORRE LE GIUSTE DOMANDE di Thomas Hora

Ci sono molte cose che paiono molto logiche, naturali, razionali e realistiche, che tuttavia non sono necessariamente vere. Per esempio, siamo portati a credere che è importante ricordare tutto del nostro passato per migliorare il presente ed evitare di influenzare il futuro. Un mucchio d’energie è speso dalla gente per ricordare in dettaglio il passato: “Che cosa è accaduto?” “Perché è accaduto?” “Chi è da criticare per l’accaduto?” C’è una storia di uno che era in analisi da anni, il suo problema principale era il mangiarsi le unghie. Un giorno incontra un amico che gli chiede: “Come va con l’analisi?” e risponde “benissimo, ti dico che dovrebbero farla tutti, è meraviglioso!” “Hai smesso di mangiarti le unghie?” chiede l’amico. E l’uomo risponde: “No, ma ora so perché lo faccio.”

Uno psichiatra francese una volta disse: “Non stiamo bene perché ricordiamo, ma ricordiamo quando stiamo bene.” Nella psicoterapia esistenziale non mettiamo alla prova il passato, ma gli permettiamo di rivelarsi lungo il percorso d’acquisizione della comprensione di “ciò che è”. C’è una domanda che diventa superflua nella psicoterapia esistenziale. La domanda è: “Perché?” La domanda: “Perché?” diventa completamente superflua. Non esiste la domanda: “Chi è da giudicare?” o “Che cosa dovrei fare?” Fondamentalmente si pongono solo queste due domande: 1 Quale è il significato di ciò che sembra essere? 2 Che cosa è ciò che realmente è?

Il processo terapeutico è una situazione d’incontro in cui si rivelano molti aspetti del modo del paziente di “essere nel mondo”. Ciò che è necessario è la recettività di una mente aperta, libera da preconcetti riguardo a ciò che dovrebbe o non dovrebbe essere.

Se pratichiamo l’osservazione dei processi del pensiero, costatiamo molto di frequente che i nostri pensieri hanno la tendenza a muoversi attorno ai dilemmi di ciò che dovrebbe o non dovrebbe essere. Se la nostra consapevolezza viene liberata da questi preconcetti, diventiamo più capaci di percepire ciò che veramente è. La psicoterapia potrebbe essere descritta come un tentativo di discernere il buono al di sotto della patologia. Di che cosa è fatta la patologia? E’ fatta di percezioni distorte.

<…> Possiamo aiutare un paziente a comprendere il modo distorto con cui affronta una situazione e che cosa è esistenzialmente valido. Quindi egli può riscoprire di avere delle sane intenzioni che si sono distorte attraverso una cattiva interpretazione e percezione. Così potremmo affermare che la patologia consiste in percezioni scorrette di ciò che è buono, di ciò che è vero e di ciò che è esistenzialmente valido. Prima abbiamo detto che la psicoterapia esistenziale non è interpretativa ma ermeneutica. Delucida, chiarifica, aiutando la gente a vedere molto più correttamente gli aspetti esistenziali. La prospettiva interpersonale intende aiutare gli individui a stare bene con gli altri. Ognuno può impararla, ma stare bene con gli altri non è sinonimo di sanità. L’approccio esistenziale cerca di aiutare le persone ad entrare in armonia con l’Ordine Fondamentale dell’esistenza. Cosa è l’Ordine fondamentale dell’esistenza? Per comprenderlo meglio dobbiamo essere consapevoli che ci sono molti ostacoli con cui dobbiamo confrontarci per entrare in armonia. Uno di questi ostacoli è l’“operazionalismo”, la preoccupazione riguardo al “come fare le cose” ancora prima di aver riconosciuto che cosa è ciò che è. C’è una certa tendenza della mente che è sempre diretta alla preoccupazione di “come fare le cose”. Questo interferisce con il mettere a fuoco l’attenzione su ciò che realmente è. E’ necessario mettere in secondo piano le preoccupazioni del come fare, cosicché si possa essere completamente consapevoli di ciò che è. Quando sediamo con un paziente, egli presenta certi problemi e se noi conosciamo la giusta domanda da porre, il significato si rivelerà da solo. L’enfasi deve essere sulla rivelazione. Qualche volta terapeuti non esperti, che non si sono ancora liberati da una modalità “operazionale” e “calcolata” di pensare alla vita e dalla tendenza a cercare “la risposta” e immaginare “la soluzione”, hanno la tendenza a cercare di immaginare la soluzione ed il senso. Il significato non può essere immaginato o scoperto; il significato dei fenomeni si rivela a noi naturalmente. Se prendiamo una pallina da ping-pong, la mettiamo sott’acqua e poi la lasciamo andare, essa irrimediabilmente risalirà alla superficie. La stessa cosa accade con il significato. Se noi smettiamo di immaginare un significato esso spontaneamente si rivelerà a noi.

<…> Mi viene in mente la storia di due psichiatri che lavoravano nello stesso palazzo e alla fine del giorno scendevano sullo stesso ascensore. Uno era anziano e ogni sera era sempre fresco ed in forma mentre il più giovane era sempre affaticato. Il più giovane un giorno chiede all’altro: “Non so come tu faccia, tutto il giorno hai un paziente dopo l’altro e non mostri per niente stanchezza. Io sono esausto dopo avere ascoltato tutti questi pazienti. Come fai?” Lo psichiatra più anziano rispose: “E chi ascolta?”

C’è un modo di lavorare attivamente efficacemente e senza sforzo lasciando che a lavorare sia “l’Amore – Intelligenza”. Quali sono le caratteristiche di un terapeuta perché una buona comunicazione abbia luogo? Quale è la peculiarità di quei terapeuti che non hanno problemi nella comunicazione? Ci sono alcuni individui che possono andare in un ospedale psichiatrico e sedersi vicino ad un paziente che non ha mai parlato per anni e presto questo inizierà a parlare con loro, mentre altri possono avere cercato per anni di parlare con lo stesso paziente che restava sempre in silenzio ogni volta che veniva avvicinato. Si tratta di una qualità misteriosa? E’ una magia? No! E’ la motivazione. Il terapeuta deve avere la giusta motivazione. Perché la comunicazione accada in maniera efficace, terapeutica e benefica ci sono certe regole. Una delle cose richieste è che il terapeuta deve essere libero dal desiderio di “terapizzare”. Non è facile. Il desiderio di “terapizzare” può significare per il paziente che si cerca di invadere il suo spazio e di manipolarlo. La qualità della presenza in ognuno di noi è differente e determinata dal nostro sistema di valori e dalla nostra motivazione. Una delle più frequenti motivazioni del terapeuta è “terapizzare”, specialmente quei terapeuti che hanno un approccio alla vita “operazionale”. Se il modo del terapeuta di “essere nel mondo” è soltanto operazionale, il paziente manifesterà una gran quantità di resistenza. Nessuno ama essere terapizzato. E così allora che cosa può facilitare la comunicazione? Ci deve essere una qualità di “lasciar essere”. Molta gente confonde il principio di lasciar essere con il trascurare. C’è una differenza molto sottile tra “lasciar essere” e trascurare. Lasciare essere è rispettoso e relativo all’amore, l’indifferenza è rifiuto. Lasciare essere è la cosa più difficile da imparare. Permettetemi un rapido commento sulla parola accettazione. Chi siamo noi per accettare o non accettare qualcuno? Nel momento in cui pensiamo in questo modo abbiamo già impostato una struttura in cui noi siamo superiori al paziente. La teoria dell’accettazione è meglio lasciarla fuori. Noi non siamo né “accettatori”“rifiutatori”, noi siamo lì per comprendere che cosa si rivela da sé di momento in momento, e siamo disponibili a commentare in caso qualcuno sia interessato. Se non è così, restiamo lì con questa ricettività di fronte a “ciò che è” momento per momento. Questa è una totale non intrusività nello spirito dell’amore. Noi siamo disponibili al paziente. Sediamo con lui in questo spirito di disponibilità per aiutare la chiarificazione di qualunque cosa egli possa desiderare conoscere o comprendere. Precedentemente abbiamo parlato dell’influenzare. L’influenzare ha un grande posto – nella vita, nell’amicizia, nella vita familiare, negli affari e nella professione – ed è certamente un aspetto prezioso della psicoterapia. Certamente non abbiamo il diritto di influenzare i nostri pazienti verso alcuna direzione, tuttavia possiamo influenzare attraverso la qualità della nostra presenza e la nostra disponibilità a chiarificare ciò che abbiamo compreso e che cosa ci è richiesto. Quando sediamo vicino ad un paziente con questo spirito, generalmente non ci sono difficoltà di comunicazione. Presto il paziente inizia a porre domande e nuove domande vengono fuori. Qualunque cosa sia richiesta, noi siamo lì per commentare secondo la nostra migliore comprensione. Se riusciamo a comprendere “ciò che è” il problema del “come?” non sorge. La terapia è un processo ermeneutico di chiarificazione di tutto ciò che deve essere chiarificato. Ed è la chiarezza della comprensione di certi fatti che ha proprietà di guarire il paziente. Il potere di guarigione non è nel terapeuta, è nella correttezza delle chiarificazioni. E’ la verità che guarisce, non l’uomo che è testimone della verità. “Il dito che indica la luna non è la luna” dicono i maestri Zen. Così in questo modo non facciamo nulla, il paziente non fa nulla, la terapia non viene fatta, ed avviene uno svelarsi spontaneo come un sorgere progressivo di chiarezza.

Yen-Hui era un discepolo del famoso saggio taoista di nome Chang-tzu. Questo Yen-Hui era anche prominente figura della corte imperiale e doveva diventare il consigliere dell’Imperatore. Quest’imperatore aveva una gran predilezione per il tagliare la testa a quei consiglieri che commettevano degli errori. Yen-Hui era spaventato di questo lavoro e andò a chiedere consiglio al suo maestro. Disse al maestro: “Non credo di essere sufficientemente illuminato da essere sicuro in questa posizione di responsabilità.” Chang-tzu gli disse: “in questo caso devi ritirati e praticare il digiuno della mente.” Lui chiese “Che cosa è il digiuno della mente?” Chang-tzu gli diede le seguenti istruzioni: “Quando vuoi udire con le orecchie, non ascoltare con le tue orecchie, quando vuoi vedere con gli occhi non guardare con i tuoi occhi, quando vuoi comprendere con la mente, non pensare con la tua mente. Ascolta, vedi e comprendi con il Tao.”

Yen-Hui si ritirò e passò tre anni a svolgere questa disciplina. Dopo tre anni ritornò dal maestro e disse: “Penso d’essere pronto”. Chang-tzu disse: “Bene provamelo.” Yen-Hui disse: “Prima di aver praticato il digiuno della mente ero sicuro d’essere Yen-Hui, ma ora dopo aver praticato il digiuno della mente sono giunto alla realizzazione che non è mai esistito tale Yen-Hui.” Il maestro disse “Ora sei pronto!”

Che cosa voleva dire con questo? Se non era mai stato Yen-Hui allora chi era? E se Yen-Hui non era mai esistito chi siamo noi? Yen-Hui scoprì che non era una persona con un ego “suo”, una mente sua, e sue opinioni, ma che era una manifestazione dell’Amore – Intelligenza. Egli diventò una presenza benefica per il mondo, che non si basa su opinioni personali ma su saggezza ispirata. Tale persona vive in sicurezza.

Lo scopo della psicoterapia esistenziale è quello di aiutare la gente ad ottenere autenticità dell’essere. Per conoscere ciò che è vero dobbiamo riconoscere ciò che è falso.

L’incontro tra Oriente e Occidente (Zimmer)

«Proprio come una brocca d’acqua si dissolve nella terra, un’onda nel mare e un bracciale nell’oro, nello stesso modo l’universo si dissolverà in me. Che meraviglia sono! Adoro me stesso! Infatti, quando il mondo, dal suo più alto dio al più piccolo filo d’erba, si annienterà, questa distruzione non mi toccherà».

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Qui è evidente una totale disgiunzione tra il sé fenomenico (la personalità ingenuamente conscia che insieme con il suo mondo di nomi e di forme si dissolverà a tempo debito) e quell’altro Sé trascendente (atman), profondamente nascosto, essenziale ma dimenticato, che, quando viene ricordato, lancia un possente ruggito capace di annientare il mondo: «Che meraviglia sono!». Il Sé trascendente non è qualcosa di creato, ma il substrato di tutte le cose create, di tutti gli oggetti, di tutti i processi. «Le spade non lo tagliano, il fuoco non lo brucia, l’acqua non lo bagna, il vento non lo secca.»

Le facoltà sensoriali, solitamente rivolte all’esterno mentre apprendono e reagiscono agli oggetti, non entrano in contatto con la dimensione di questa realtà permanente, ma solo con le evoluzioni transitorie, con le trasformazioni periture dell’energia. Il potere della volontà, quindi, pur portando al raggiungimento degli obiettivi mondani, non può essere di grande aiuto all’uomo. I piaceri e le esperienze dei sensi non possono iniziare la coscienza al segreto della pienezza della vita. Secondo il pensiero e l’esperienza dell’India, la conoscenza delle cose mutevoli non conduce a una visione realistica, poiché queste realtà mancano di sostanzialità, periscono, nè conduce a una visione idealistica, poiché le cose in divenire sono incoerenti, si contraddicono e si negano continuamente a vicenda. Le forme fenomeniche sono per loro natura illusorie e fallaci. Chi si basa su di esse, ne sarà confuso. Si tratta semplicemente di particelle di una vasta illusione universale che è toccata dal maleficio della dimenticanza del Sé, che è sostenuta dall’ignoranza e che viene portata avanti dalle passioni ingannevoli. L’ingenua inconsapevolezza della verità nascosta del Sé è la causa primaria di tutti i falsi valori, di tutti gli atteggiamenti errati e di tutti i conseguenti tormenti che questo mondo illuso si auto infligge.

Ovviamente, in questa intuizione è implicita una diminuzione di interesse non solo per tutti i normali mezzi e i fini degli abitanti del mondo, ma anche per i riti e i dogmi della religione di tali individui illusi. Il creatore mitologico, il Signore dell’universo, non è più così interessante. Soltanto la consapevolezza interiore diretta verso le profondità della propria natura può raggiungere quella linea di confine in cui i fenomeni transeunti incontrano la loro fonte immutabile. E questa consapevolezza può alla fine condurre l’intera coscienza oltre il confine, facendola fondere in una morte che la rende imperitura ‑ con l’onnipresente substrato di tutte le sostanze, che è il Sé (atman), la fonte ultima, eterna e basilare dell’essere. Il Sé è ciò che crea tutte queste manifestazioni particolari, tutti questi cambiamenti di forma, tutte queste deviazioni dal vero essere, tutte queste trasformazioni (vikara) ed evoluzioni del gioco cosmico. E non è attraverso la lode e la sottomissione agli dei, ma attraverso la conoscenza, la conoscenza del Sé, che il saggio passa dal coinvolgimento in ciò che si manifesta alla scoperta della causa prima. Tale conoscenza si ottiene con una delle due seguenti tecniche: 1 la svalutazione sistematica dell’intero mondo come illusione, o 2. la comprensione/realizzazione, altrettanto completa, della semplice materialità del tutto

Il bene supremo

Qui riconosciamo proprio la Posizione non teistica e antropocentrica che oggi stiamo per raggiungere o abbiamo già raggiunto in Occidente. Infatti, dove si trovano gli dèi cui tendere le mani, inviare preghiere e presentare offerte? Al di là della Via Lattea, nello spazio infinito, si trovano soltanto altri mondi, altre galassie, non regni di angeli, non palazzi celesti, non cori di beati che circondino il trono divino del Padre e che si muovano in uno stato di beatitudine intorno al mistero centrale della Trinità. C’è forse lassù, tra quegli immensi regni, qualche regione in cui l’anima possa aspettarsi di giungere ai piedi di Dio, dopo essersi spogliata dei propri affanni mortali? O non dobbiamo piuttosto volgerci ora all’interno, cercare il divino dentro di noi, al livello più profondo, ascoltare la segreta voce interiore che nello stesso tempo comanda e consola, e attingere là dentro la grazia che supera ogni comprensione? Alla fine, anche noi occidentali moderni siamo pronti a cercare e ad ascoltare la voce che l’India ha udito. Però, proprio come il cucciolo di tigre, dobbiamo ascoltarla non da un maestro, ma dalla nostra interiorità. Oggi il Cristianesimo rivelato si trova in una situazione simile a quella del pantheon vedico nel periodo della sua svalutazione. Il cristiano, come dice Nietzsche, è un uomo che si comporta come tutti gli altri. La nostra professione di fede non ha più nessuna influenza discernibile né sul nostro comportamento pubblico né sul nostro privato stato di speranza. Su molti di noi, i sacramenti non operano più una trasformazione spirituale; siamo confusi e perplessi, e non sappiamo dove volgerci. Nel frattempo, i nostri filosofi accademici si occupano più dell’informazione che della trasformazione redentrice necessaria alle nostre anime. Questa è la ragione per cui uno sguardo alla situazione dell’India può aiutarci a scoprire e a ricuperare qualcosa di noi stessi.

Lo scopo basilare di qualsiasi serio studio del pensiero orientale dovrebbe essere, non semplicemente la raccolta e l’ordinamento del maggior numero possibile di informazioni, ma l’accoglimento di qualche influenza significativa. E perché ciò avvenga come nella parabola della capra adottata che scoprì d’essere una tigre dobbiamo mangiare la carne dell’insegnamento, rossa, al sangue, non troppo cotta al fuoco del nostro incallito intelletto occidentale (e, meno che mai, intinta in una salamoia filologica), ma neppure cruda, perché sarebbe sgradevole e forse indigeribile. Dobbiamo consumarla al sangue, piena di succhi rossi, in modo da poterla veramente gustare con un senso di sorpresa. Così ci uniremo dalla nostra transoceanica distanza al ruggito della sapienza indiana che risuona nel mondo.

Tratto da FILOSOFIE E RELIGIONI DELL’INDIA, di Heinrich Zimmer Ed. Mondadori

FILIPPO FALZONI GALLERANI