Il Maestro Huang Po disse…

I DISCORSI DI HUANG-PO MAESTRO CH’AN CINESE DEL IX° SECOLO

Il Maestro disse:
Tutti i Buddha e tutti gli esseri viventi non sono altro che un’unica Mente: non vi è alcun altro metodo spirituale.
Questa Mente, mai nata, da tempi senza inizio, non è mai cessata di esistere; né blu né gialla, senza forma né aspetto, non dipende né dall’essere, né dal non-essere, né dal vecchio né dal nuovo; non è né lunga né corta, né grande né piccola, aldilà di ogni delimitazione o denominazione, di là da ogni possibilità di essere percepita o considerata come un oggetto; eccola, essa è la Realtà in sé!
Ma, alla prima considerazione pensativa, la si perde… Illimitata e insormontabile si direbbe spazio vuoto! Così, questa mente-unica è il Buddha e tra il Buddha e gli esseri viventi non vi è differenza.
Tuttavia, gli esseri viventi cercano sempre da qualche altra parte, attaccandosi ai fenomeni e, così facendo perdono tutto, perché andando alla ricerca del Buddha con la loro idea del Buddha e ricercando la Mente con la loro mente erronea, anche sforzandosi per interi kalpa, non potrebbero approdare a niente.
Essi ignorano che il Buddha appare spontaneamente a chi cessa di evocarlo liberandosi dal processo pensativo.
Questa Mente, dunque, è il Buddha e il Buddha è la totalità degli esseri viventi.
Quando egli è un “essere vivente”, la Mente non ne viene per niente diminuita e quando essa è il Buddha, per niente aumentata.
Se non credete fermamente che questa Mente sia il Buddha e se volete praticare attaccandovi ai caratteri particolari (fenomeni) per ottenere i meriti, siete in preda ad un totale malinteso e così devierete dal Sentiero.
Questa mente è il Buddha. Non vi è altro Buddha e neppure altra mente.
Questa mente chiara e pura somiglia allo spazio vuoto, perché in nessun punto avrà mai una forma particolare.
Quando si suscita uno stato di mente particolare a causa dell’intromissione dei pensieri, ciò vuol dire deviare dalla sostanza delle cose e attaccarsi ai caratteri particolari.
Ora, non si è mai visto, da tempi senza inizio, un Buddha attaccato alle “particolarità” (cioè ai fenomeni).
Esercitarsi con le sei paramita e con infinite pratiche, per diventare Buddha, significa seguire una via graduale e, da sempre, non si è mai visto qualcuno diventato “Buddha per gradi”.
È sufficiente risvegliarsi a questa mente-unica per non aver più la minima realtà da trovare; questa è la vera Buddhità.
Il Buddha e gli esseri viventi sono indifferenziati nella mente-unica che, come lo spazio vuoto, non è mai confusa e mai si deteriora. Infatti, guardate il sole che illumina il mondo intero.
Al suo levare, la luce si spande sulla terra, ma lo spazio in se stesso non diviene più luminoso.
E quando il sole sparisce e le tenebre ricoprono la terra, lo spazio non si oscura affatto.
La luce e l’oscurità si scacciano l’un l’altra, ma lo spazio resta vuoto e immutato per sua natura. La stessa cosa accade per questa mente del Buddha e degli esseri viventi.
Vi sono alcuni che considerano il Buddha come potatore dei segni particolari di essere puro, libero e luminoso, mentre al contrario, gli esseri viventi sono portatori di qualità di esseri impuri, offuscati e incatenati al Samsara.
Tuttavia, chi afferma questo, non otterrà mai il Risveglio, neanche dopo innumerevoli kalpa, poiché si attacca ai fenomeni.
In questa mente-unica, quindi, non c’è nient’altro da cercare, perché la mente stessa è il Buddha.
Oggigiorno, i praticanti che non si sono risvegliati a questa mente, in sostanza non fanno che produrre pensieri su pensieri, cercando il Buddha all’esterno e continuano a praticare attaccandosi ai caratteri particolari.
Questo è un cattivo metodo e non la Via del Risveglio.

(Tratto dall’originale Cinese di P’ei-Hsiu Tradotto in Francese da Patrick Carrè e in Italiano da Cristina Martire e Alberto Mengoni).

La vita è il guru supremo (Sri Nisargadatta Maharaj)

5 Dicembre 1970

Interrogante: Veniamo tutt’e due da lontano, dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti. Il mondo in cui viviamo va in pezzi; e poiché siamo giovani, la cosa ci riguarda. I vecchi si augurano di avere una morte naturale, per i giovani non c’è questa speranza. Alcuni di noi possono rifiutare di uccidere, ma nessuno può rifiutare di venire ucciso. C’è una possibilità per noi di raddrizzare il mondo?
Maharaj: Che cosa ti fa credere che il mondo stia finendo?
I.: Gli strumenti di distruzione sono oggi straordinariamente potenti. Inoltre la nostra produttività è diventata nemica della natura e dei valori sociali e culturali.
M.: Stai parlando del presente. Ma è così altrove, e sempre? Una situazione spaventosa può essere temporanea e locale. Una volta trascorsa, sarà dimenticata.
I.: La catastrofe che incombe è di dimensioni immani. Viviamo nel mezzo di un’esplosione.
M.: Ogni uomo soffre solo e muore solo. Le cifre sono irrilevanti. La quantità di morte è la stessa se periscono migliaia di uomini o uno solo.
I.: La natura ne sopprime a milioni, e non è questo che mi spaventa. Può essere tragico e pieno di mistero, ma non è crudele. Ciò che mi fa inorridire è la sofferenza per mano umana, la distruzione e la desolazione. La natura è magnifica nel fare e disfare. Invece v’è meschinità e follia negli atti dell’uomo.
M.: È vero. I vostri problemi non sono il dolore e la morte, ma la bassezza e la follia radicali. E la bassezza non è anche una forma di follia? E la follia, un uso distorto della mente? Il problema umano è appunto questo: l’uso distorto della mente. Tutti i tesori della natura e dello spirito si schiudono per l’uomo che sa usare correttamente la mente.
I.: Qual è il giusto uso della mente?
M.: Paura e avidità causano il cattivo uso della mente. Quello giusto è al servizio dell’amore, della vita, della verità, della bellezza.
I.: Più facile dirlo che farlo. L’amore per la verità, per l’uomo e la buona volontà, sono un lusso! Ce ne vorrebbe tanto per raddrizzare il mondo, ma chi lo fornisce?
M.: Puoi cercare all’infinito la verità e l’amore, l’intelligenza e la buona volontà, implorando Dio e gli uomini invano. Devi incominciare da te, dentro di te: questa è la legge inesorabile. Non puoi cambiare l’immagine senza cambiare il volto. Anzitutto convinciti che il tuo mondo è il riflesso di come sei tu, e smetti di trovare l’errore a furia di ragionamenti. Occupati di te, raddrizza la mente e le emozioni. La volontà materiale seguirà automaticamente. Parli tanto di riforme: sociali, economiche, politiche. Lasciale perdere e bada al riformatore. Che tipo di mondo può costruire un uomo che sia stupido, avido, senza cuore?
I.: Se dobbiamo aspettare che cambi il cuore, bella attesa! È un consiglio di perfezione, il vostro, che è anche di disperazione. Quando tutti siano perfetti, lo sarà anche il mondo. Troppo ovvio!
M.: Ripeto che non puoi cambiare il mondo prima di aver cambiato te stesso: e bada! te stesso, non ognuno. Cambiare gli altri non è attuabile e nemmeno necessario. Ma se cambi te stesso, ti accorgi che non occorre cambiare nient’altro. Per vedere un’altra immagine, basta sostituire il film, non devi assalire lo schermo!
I.: Da dove vi viene tanta sicurezza?
M.: Non è di me che sono sicuro, ma di te. Tutto ciò che ti occorre è smettere di cercare all’esterno quello che puoi trovare solo dentro di te. Raddrizza la tua prospettiva prima di agire. Soffri di un’acuta forma di incomprensione. Detergi la mente, purifica il cuore, santifica la vita: questo è il modo più rapido di cambiare il tuo mondo.
I.: Tanti santi e illuminati hanno vissuto e sono morti. Non hanno cambiato il mio mondo.
M.: Come avrebbero potuto? Il tuo mondo non è il loro, né il loro è il tuo.
I.: Certamente c’è un mondo comune a tutti.
M.: Vuoi dire il mondo delle cose concrete, fatto di energia e materia? Ammesso che esista, non è quello in cui viviamo. Il nostro è un mondo di sentimenti e idee, attrazioni e repulsioni, gradazioni, valori, motivi e stimoli: un mondo completamente mentale. Biologicamente, ci occorre assai poco. I nostri sono problemi di altra natura. Creati da desideri, paure e idee sbagliate, si risolvono solo al livello mentale. Lo scopo è conquistare la mente; ma per farlo, devi andare al di là.
I.: Che significa oltrepassare la mente?
M.: Il corpo lo oltrepassi di già, non è vero? Non segui consapevolmente i processi della digestione, della circolazione e dell’evacuazione: sono automatici. Anche la mente dovrebbe funzionare senza pretendere attenzione. La nostra coscienza della mente e del corpo è pressoché ininterrotta perché ci costringono a occuparcene. Dolore e pena non sono altro che il corpo-mente che strilla perché gli si badi. Per andare oltre il corpo, devi essere sano. Per oltrepassare la mente, devi averla in perfetto ordine. Non puoi lasciarti alle spalle una bolgia, e tirar dritto. Ti c’impantanerai. “Raccogli le tue immondizie” sembra essere la legge universale. E più che giusta.
I.: Posso sapere come siete andato oltre la mente?
M.: Grazie al mio Maestro.
I.: Come fu?
M.: Mi disse ciò che era vero.
I.: Cioè?
M.: Che sono la Realtà Suprema.
I.: E voi?
M.: Gli credetti e l’ho tenuto a mente.
I.: Tutto qui?
M.: Sì, è bastato ricordare le sue parole.
I.: Davvero solo questo?
M.: E ti par poco? Fu un gran cosa ricordare il Maestro e le sue parole. A te do un consiglio anche più modesto: ricordati di te. L'”Io sono” è sufficiente a curare la mente e a portarti al di là. Basta un po’ di fiducia. Sta’ certo che non t’inganno. Voglio niente da te? Ti auguro il bene; questa è la mia natura. Perché dovrei ingannarti?
Anche il buon senso ti conferma che per soddisfare un desiderio devi porci sopra la mente. Se vuoi conoscere la tua vera natura, devi averti in mente tutto il tempo finché il segreto del tuo essere si svelerà.
I.: Perché la reminiscenza di sé porterebbe all’autorealizzazione?
M.: Perché sono i due aspetti di un unico stato. L’autoreminiscenza è nella mente, l’autorealizzazione è al di là. L’immagine nello specchio del volto, al di là dello specchio.
I.: Capisco. Ma qual è lo scopo?
M.: Per aiutare gli altri bisogna essere al di là del bisogno di aiuto.
I.: Voglio essere felice.
M.: Se vuoi dare felicità, sii felice.
I.: Che gli altri badino a sé.
M.: Amico, tu non sei isolato. La felicità che non puoi condividere è spuria. Solo il partecipabile è davvero desiderabile.
I.: Vero. Ma devo ricorrere a un maestro o no? Quello che dite è semplice e convincente. Lo terrò a mente. Ma non per questo vi rende il mio maestro.
M.: Non è l’adorazione di una persona il fatto determinante, ma la fermezza e la profondità della tua dedizione allo scopo. La vita stessa è il Maestro; sii attento alle sue lezioni e obbediente ai suoi comandi. Quando la fonte degli ordini è personalizzata, hai il maestro esterno; quando prendi gli insegnamenti direttamente dalla vita, il maestro è dentro. Comunque sia, egli si rivela parlando. Perciò ricorda, pondera, vivi, ama, cresci, fa’ tua la sua parola. Mettici dentro tutto, e otterrai tutto. Io ho fatto così. Tutto il mio tempo lo dedicavo al Maestro e a ciò che mi diceva.
I.: Sono uno scrittore. Potete darmi qualche consiglio specifico?
M.: Scrivere è sia un talento che un’abilità. Cresci nel talento e sviluppa l’abilità. Desidera ciò che è degno di esserlo, e desideralo bene. Come ti apri un varco nella folla, così ti aprirai la tua via tra gli eventi, senza smarrire la direzione generale. Se sei serio, è facile.
I.: Insistete sull’importanza di essere seri. Ma non siamo uomini di una sola volontà. Siamo un cumulo di desideri e bisogni, istinti e pulsioni. Strisciano gli uni sugli altri. Si alternano nel sopravvento reciproco, ma mai troppo a lungo.
M.: Non ci sono bisogni, ma solo desideri.
I.: Mangiare, bere, riparare e proteggere il corpo; la vita stessa che cos’è?
M.: Il desiderio di vivere è quello fondamentale. Tutto il resto ne dipende.
I.: Viviamo perché dobbiamo.
M.: Viviamo perché bramiamo l’esistenza sensibile.
I.: Una situazione così universale non può essere sbagliata.
M.: Non è sbagliata davvero! A luogo e tempo opportuni, niente lo è. Ma quando ti interessi alla verità, alla realtà, devi mettere in questione tutto, persino la tua vita. Se convalidi la necessità dell’esperienza sensibile e intellettuale, riduci la tua indagine a una ricerca di comodità.
I.: Cerco la felicità, non la comodità.
M.: Conosci una felicità che non sia quella della mente o del corpo?
I.: Ce n’è forse un’altra?
M.: Trovalo da te. Metti in questione ogni spinta, non trattare nessun desiderio come se fosse legittimo. Scevro di possessi, materiali e mentali, libero da qualsiasi preoccupazione per te, sii aperto alla scoperta.
I.: Nella tradizione spirituale dell’India si ritiene che la semplice vicinanza di un santo o di un realizzato agevoli la liberazione, sicché non occorrerebbe altro mezzo. Perché non organizzate una comunità, un ashram nel quale i devoti potrebbero vivervi accanto?
M.: Non appena creo un’istituzione, ne divento il prigioniero. Disponibile per tutti lo sono già. Un tetto e il cibo in comune non renderebbe la gente più ben accetta di ora. Vivere accanto, non significa respirare la stessa aria. Ma aver fiducia e obbedire, non permettere che le buone intenzioni del maestro vadano sprecate. Se hai il tuo maestro sempre nel cuore e ricordi le sue istruzioni: questo significa dimorare nel vero. La vicinanza fisica è la meno importante. Rendi l’intera vita un’espressione della fede e dell’amore per il maestro: questo è il vero dimorare con lui.

Zen e Autonatura (T. D. Suzuki)

Rileggendo libri letti in gioventù mi rendo conto che a circa 40 anni di distanza vedo come reale evidenza quello che allora mia parevano solo elevati concetti e astrazioni lontani dal vivere quotidiano. Nelle pagine precedenti a queste Suzuki inizia con il descrivere gli insegnamenti di Hui Neng (Patriarca dello Zen in Cina nell’ottavo secolo), e la differenza della sua visione non-dualista, del risveglio immediato, con le scuole del nord che insistevano sulla meditazione come costante ripulitura dai pensieri che offuscano la l’essenza luminosa della “Coscienza Specchio”.  In queste poche pagine sono esposti alcuni aspetti di cruciale importanza per chi persegue l’autoindagine e la meditazione. E’ evidente che gli insegnamenti del buddhista Hui Neng in essenza sono simili al Vedanta Hindù e dell’insegnamento non Dualista di Shankara. T. Suzuki è riconosciuto tra i più grandi studiosi dello Zen, ebbe stretti contatti con Heidegger, e anche C. G. Jung lo cita.  Sono pagine incomprensibili per chi non ha dimestichezza con la filosofia orientale, ma di certo comprensibili a chi ha praticato seriamente il Rebirthing Transpersonale.

Tratto da: La dottrina del Vuoto Mentale, T.D. Suzuki Ediz. Astrolabio. da Pag. 38, (i corsivi sono miei)

Quando diciamo: “Vedi nella tua autonatura”, il vedere può essere interpretato come mera percezione, mera coscienza, mero riflettere staticamente sull’autonatura, che è pura e incontaminata e che mantiene la sua qualità in tutti gli esseri, così come in tutti i Buddha. Questa è indubbiamente la concezione che ne ebbe Shen-hsiu. (Il maestro cui Hui Neng si contrappone). Ma, in realtà, il vedere è un atto, un fatto rivoluzionario da parte della conoscenza umana, di cui si è sempre supposto che le funzioni fossero quelle di analizzare logicamente le idee, idee intuite dal loro significato dinamico. II ‘vedere’, specie nel senso di Hui-neng, era molto più di un atto passivo di guardare, una semplice conoscenza ottenuta dal contemplare la purezza dell’autonatura; vedere, secondo lui, era la stessa autonatura che si mostra dinanzi a lui in completa nudità e agisce senza alcuna riserva. In ciò ravvisiamo il grande abisso che divide la Scuola Settentrionale del Dhyana (meditazione) dalla Scuola Meridionale del Prajna (saggezza). La Scuola di Shen-hsiu presta maggiore attenzione all’aspetto ‘Corpo’ dell’autonatura ed esorta i suoi seguaci a concentrare i loro sforzi nello sgombrare la coscienza, così da vedervi il riflesso della autonatura pura e incontaminata. Essi hanno dimenticato che la autonatura non è qualcosa il cui Corpo può essere riflesso nella nostra coscienza allo stesso modo in cui una montagna può vedersi riflessa nella superficie liscia di un lago. Non vi è un tale corpo nell’autonatura, perché il Corpo stesso è l’Uso; oltre all’Uso non vi è Corpo. E con quest’Uso s’intende vedere il Corpo in se stesso. Con Shen-hsiu questa autovisione, o aspetto Prajna dell’autonatura, è completamente ignorata.
La posizione di Hui-neng, al contrario, sottolinea l’aspetto Prajna che si può conoscere dell’autonatura. Questa fondamentale divergenza fra Hui-neng e Shen-hsiu nella concezione dell’autonatura, che è la stessa cosa della natura del Buddha, è stata la causa che li ha fatti procedere in direzioni opposte per quanto riguarda la pratica del Dhyana; vale a dire il metodo di tzo-ch’an (zazen in giapponese).

Si legga il seguente gatha di Shen- hsiu:

Il nostro Corpo è l’albero del Bodhi,
La nostra mente è un lucido specchio;
Noi li puliamo con cura un’ora dopo l’altra
E non lasciamo che vi si posi la polvere.

– A questo Hui Neng ribatterà:“Non vi è albero della Bodhi, Né sostegno per uno specchio, Poiché tutto è vuoto, Dove può poggiarsi la polvere?” (mia nota aggiunta).|-

Nel tipo di meditazione della spolveratura (zazen, il meditare seduti) non è facile spingersi oltre lo stadio di tranquillità della mente; questa è capace di fermarsi proprio allo stadio di quieta contemplazione che Hui-neng definisce come la pratica di ‘montare la guardia alla purezza. Al massimo essa termina nell’estasi, autoconcentrazione, temporanea sospensione della coscienza. In questo tipo di meditazione non vi è ‘vedere’, non vi è alcuna conoscenza del sé, nessuna attiva comprensione dell’autonatura, nessun agire spontaneo di questa, nessun chen-hsing (vedere nella Natura). Il tipo di meditazione della spolveratura è quindi l’arte di legarsi con una corda creata da noi stessi, una costruzione artificiale che ostacola il cammino verso l’emancipazione.
Non c’è da meravigliarsi che Hui-neng e i suoi seguaci abbiano attaccato la scuola della Purezza. Il tipo quietistico di meditazione della spolveratura e della contemplazione della verità, fu probabilmente uno degli aspetti dello Zen insegnato da Hung-jen, maestro di Hui-neng, Shen-hsiu e molti altri. Hui-neng, che comprese il vero spirito dello Zen, molto probabilmente perché non era impacciato dall’erudizione e, di conseguenza, dall’atteggiamento concettuale verso la vita, intuì giustamente il pericolo del quietismo e ammonì i suoi discepoli di evitarlo con ogni mezzo; ma la maggior parte degli altri discepoli di Hung-jen erano più o meno inclini ad adottare il quietismo come metodo ortodosso della pratica del Dhyana.
Prima che Ma-tsu, vedesse Huai-jang di Nan-yueh, era anch’egli un meditatore quietista che ambiva a contemplare il puro nulla dell’autonatura. Quando era ancora giovane, aveva studiato Zen sotto uno dei discepoli di Hung-jen. Perfino quando si recò a Nan-yueh, rimase fedele alla sua vecchia pratica, continuando il suo zazen “sedere in meditazione”.
Da ciò il seguente discorso fra Ma-tsu e Huai-jang, che fu uno dei più grandi discepoli di Hui-neng. Osservando quanto assiduamente Ma-tsu fosse impegnato nel praticare ogni giorno lo zazen, Yuan Huaj-jang disse: “Amico, qual è la tua intenzione nel praticare lo zazen?”.
Ma-tsu disse: “Desidero giungere alla buddhità”. Allora Huai-jang raccolse un mattone e cominciò a levigarlo. Ma-tsu gli chiese: Cosa stai facendo? “Voglio farne uno specchio”. “Nessuna politura riuscirà mai a fare uno specchio da un mattone”. Huai-jang replicò prontamente: Per quanto tu pratichi lo zazen, questo non ti farà mai giungere alla buddhità. Allora, cosa devo fare? domandò Ma-tsu.
“È come guidare un carro”, disse Huai-jang. “Quando si ferma, cosa deve fare il conducente? Frustare il carro o frustare il bue?”. Ma-tsu rimase in silenzio.
Un’altra volta Huai-jang disse: “Intendi diventare maestro di zazen, o intendi giungere alla buddhità? Se desideri studiare lo Zen, lo Zen non è né nello star seduti con le gambe incrociate, né nello star distesi. Se desideri giungere alla buddhità con lo startene seduto in meditazione, il Buddha non ha nessuna forma definita. Quando il Dharma non ha una fissa dimora, tu non puoi farvi nessuna scelta. Se cerchi di giungere alla buddhità stando seduto con le gambe incrociate in meditazione, questo significa assassinare il Buddha. Finché resti legato a questa posizione d’immobilità, non potrai mai giungere alla Mente”.
Così istruito, Ma-tsu, si sentì come se stesse bevendo un delizioso liquore. Inchinandosi, domandò: “Come mi dovrei preparare per poter essere in accordo col Samadhi dell’informe?”. Il maestro disse: “Disciplinarsi nello studio della Mente è come gettare i semi nel terreno; il mio insegnamento nel Dharma è come far cadere la pioggia dall’alto. Quando le condizioni saranno mature tu vedrai il Tao”.
Ma-tsu chiede ancora: “Se il Tao non ha forma, come si può vederlo?”. Il Maestro rispose: “L’occhio del Dharma che appartiene alla Mente è capace di vedere nel Tao. Così è il Samadhi dell’informe”.
MA-tsu: “E’ soggetto al completamento e alla distruzione?”
Maestro: “Se vi applichiamo nozioni quali completamento e distruzione, riunione e dispersione, non potremo mai averne la visione profonda.

In un certo senso si può dire che lo Zen cinese sia realmente cominciato con Ma-tsu e il suo contemporaneo Shih-tou, che furono entrambi discendenti diretti di Hui-neng. Ma prima di confermarsi saldamente nello Zen, Ma-tsu era sempre sotto l’influenza del Dhyana di tipo spolveratura e contemplazione della purezza, e si applicava molto indefessamente alla pratica dello zazen, sedendo a gambe incrociate in meditazione. Egli non aveva alcuna idea del tipo dell’autovisione, nessuna concezione che l’autonatura, la quale è l’essere in sé, fosse autovisione e che non vi fosse Essere oltre il Vedere che è Agire; che questi tre termini Essere, Vedere, Agire erano sinonimi e intercambiabili fra loro. Il Dhyana doveva quindi essere praticato alla luce del Prajna e i due dovevano essere considerati non come concetti separati, ma come un solo concetto. Per tornare a Hui-neng, noi comprendiamo ora perché dovesse insistere sull’importanza del Prajna e teorizzare sull’unità di Dhyana e Prajna.
Nel T’an-ching egli apre la sua Predica con il vedere nella propria autonatura per mezzo del Prajna, di cui è dotato ciascuno di noi, dotto o ignorante che sia. Qui egli adotta il modo convenzionale di esprimersi, non essendo un filosofo originale. Nel ragionamento che abbiamo seguito prima, l’autonatura trova il suo essere quando si vede, e questo vedere avviene per mezzo del Prajna. Ma poiché Prajna è un altro nome dato all’autonatura, quando essa vede se stessa, non vi è Prajna al di fuori dell’autonatura. Il vedere (chien) è anche chiamato riconoscimento o comprensione o, meglio ancora, sperimentare (wu in cinese, satori in giapponese). Il carattere Wu è composto di ‘cuore’ (o mente) e ‘mio’, ossia il ‘mio proprio cuore’, col significato di ‘sentire nel mio proprio cuore’, o esperimentare nella mia propria ‘mente’. Autonatura è Prajna e anche Dhyana quando questo è visto, per così dire, staticamente o ontologicamente.
Prajna ha un significato più epistemologico. Ora Hui-neng afferma l’unità di Prajna e Dhyana. “O buoni amici, nel mio insegnamento ciò che è più fondamentale è il Dhyana (ting) e il Prajna (chien). E, amici, non lasciatevi ingannare e indurre a pensare che Dhyana e Prajna siano separabili. Essi sono uno e non due.
Dhyana è il Corpo di Prajna e Prajna è l’Uso di Dhyana. Quando si persegue il Prajna, Dhyana è nel Prajna; quando Dhyana è perseguito, Prajna è in esso. Quando si è compreso questo, Dhyana e Prajna procedono per mano nella pratica (della meditazione). O seguaci della verità (Tao), non dite che prima si raggiunge il Dhyana e dopo Prajna viene svegliato; e neppure che prima si raggiunge il Prajna e poi Dhyana viene svegliato; perché sono separati. Coloro che sostengono questa veduta fanno del Dharma una dualità; sono quelli che affermano con la bocca e negano col cuore. Essi considerano Dhyana distinto da Prajna.
Ma per coloro la cui bocca è in accordo col cuore, l’interno e l’esterno sono una cosa sola, e Dhyana e Prajna sono considerati uguali (ossia uno)”.
Hui-neng illustra ulteriormente l’idea di questa unità con il rapporto tra la lampada e la sua luce. Dove c’è la lampada c’è la luce; se non c’è la lampada, non c’è luce. La lampada è il Corpo della luce e la luce è l’Uso della lampada. Esse sono chiamate in modo diverso, ma in sostanza sono una cosa sola. Il rapporto fra Dhyana e Prajna deve essere inteso in modo analogo Questa analogia della lampada e della sua luce è una di quelle preferite da tutti i filosofi Zen.
Anche Shen-hui se ne serve nella sua Predica da me scoperta alla Biblioteca Nazionale di Peiping.
Nei suoi Detti troviamo l’opinione di Shen-hui sull’unità di Dhyana e Prajna, espressa in risposta a uno dei suoi interroganti. “Dove nessun pensiero è risvegliato, e il vuoto e il nulla predominano, là esattamente è Dhyana. Quando questo non-risveglio di pensiero, vuoto e nulla, si lasciano percepire, là esattamente vi è il Prajna. Dove avviene questo (mistero), noi diciamo che Dhyana preso a sé è il Corpo di Prajna e non è distinto da Prajna, ed è Prajna stesso; e inoltre che Prajna preso a sé è l’Uso di Dhyana e non è distinto da Dhyana, ed è Dhyana stesso. (In verità), quando Dhyana deve esser preso a sé, non vi è Dhyana; quando Prajna deve esser preso a sé, non vi è Prajna. Perché? Perché (Auto) natura è essenza, e questo è quanto s’intende per identità di Dhyana e Prajna. Su questo punto vi è quindi identità di vedute fra Hui-neng e Shen-hui; ma essendo ancora troppo astratto, può risultar difficile per la comune comprensione afferrarne il reale significato.
In quanto segue, Shen-hui è più concreto, o più accessibile, nella sua esposizione. Wang-wei era un alto funzionario governativo che s’interessava molto al Buddhismo e quando venne a conoscenza del disaccordo fra Shen-hui e Hui-ch’eng, che era precedentemente un seguace di Shen-hsiu, riguardo al Dhyana e al Prajna, egli chiese a Shen-hui: “Perché questo disaccordo? Shen-hui rispose: “Il disaccordo dipende dal fatto che Ch’eng ritiene che si debba prima praticare il Dhyana, e che solo quando è stato raggiunto, Prajna sarà risvegliato. Ma secondo il mio pensiero, nello stesso momento in cui sto conversando con te, qui è Dhyana e qui è Prajna, ed essi sono la stessa cosa. Secondo il Nirvana Sutra quando vi è più Dhyana e meno Prajna, ciò favorisce il crescere dell’ignoranza; quando vi è più Prajna e meno Dhyana, questo favorisce il crescere delle false opinioni; ma quando Dhyana e Prajna sono uguali, ciò viene chiamato vedere nella natura del Buddha.
Per tale ragione dico che non possiamo raggiungere un accordo”.
WANG: “Quando si dice che Dhyana e Prajna sono la stessa cosa?” SHEN-HUI: “Noi parliamo di Dhyana, ma per quanto riguarda il suo Corpo, non vi è in esso nulla di raggiungibile. Si parla di Prajna quando si vede che questo Corpo è irraggiungibile, rimanendo del tutto quiescente e sereno eppur misteriosamente funzionante, in modi che superano ogni calcolo. Qui si osserva che Dhyana e Prajna sono identici”. Tanto Hui-neng, quanto Shen-hsiu sottolineano il significato del- l’occhio del Prajna, il quale, essendo rivolto su se stesso, vede nei misteri dell’Autonatura, L’irraggiungibile è raggiunto, l’eternamente sereno viene percepito, e Prajna s’identifica con Dhyana nelle sue svariate funzioni.
E’ per questo che, mentre sta parlando con Wang-wei, Shen-hui dichiara che in questo parlare è presente tanto il Dhyana quanto il Prajna, che questo stesso parlare è Prajna e Dhyana. Con questo egli intende che Prajna è Dhyana e Dhyana è Prajna. Se diciamo che soltanto nello star seduti a gambe incrociate in meditazione vi è Dhyana, e che quando si è completamente dominato questo tipo di meditazione Prajna viene svegliato per la prima volta, noi eseguiamo un totale distacco fra il Prajna e il Dhyana, in un dualismo che è stato sempre aborrito dai seguaci dello Zen.
Sia che ci si muova o che non ci si muova, sia che si parli o non si parli, deve sempre esserci Dhyana, che è l’eternamente immobile Dhyana. Ancora una volta dobbiamo dire che essere è vedere e vedere è agire; che non vi è essere, ossia Autonatura, senza vedere e agire, e che Dhyana è Dhyana solo quando è contemporaneamente Prajna.

Riportiamo qui di seguito una citazione da Ta-chu Hui-hai, che fu un discepolo Ma-tsu:
D.: “Quando non vi è nessuna parola o discorso, può ciò essere chiamato Dhyana?
P: “Quando io parlo di Dhyana, ciò non ha rapporto col discorrere o non discorrere; il mio Dhyana è l’eternamente immobile Dhyana. Perché? Perché Dhyana è sempre in Uso. Anche quando vengono pronunciate le parole, la conversazione si svolge, o quando predomina il ragionamento discriminativo, vi è Dhyana, perché tutto è Dhyana.

Quando una mente, comprendendo perfettamente il vuoto di tutte le cose, affronta le forme, essa ne percepisce immediatamente il vuoto; per essa il vuoto è sempre presente, che affronti le forme o meno, che discorra o meno, che discrimini o meno. Ciò si applica a ogni cosa che appartiene alla nostra vista, all’udito, alla memoria e alla coscienza in genere. Perché è così? Perché tutte le cose nella loro autonatura sono vuote; e dovunque andiamo troviamo questo vuoto. Poiché tutto è vuoto, non si stabilisce alcun legame e a causa di questo non-legame vi è un Uso simultaneo (di Dhyana e Prajna).
Il Bodhisattva sa sempre come fare Uso del vuoto, e con ciò raggiunge l’Ultimo. Perciò si dice che per unità di Dhyana e Prajna s’intende l’Emancipazione”. Che il Dhyana non abbia niente a che fare col semplice star seduti a gambe incrociate in meditazione, com’è generalmente supposto dai profani, o com’è stato affermato da Shen-hsiu e dalla sua scuola fino dal tempo di Hui-neng, è asserito qui nel modo più inequivocabile. Dhyana non è quietismo, né tranquillità; è invece agire, movimento, compimento di azioni, vedere, udire, pensare, ricordare; Dhyana si raggiunge dove, per così dire, non viene praticato alcun Dhyana; Dhyana è Prajna e Prajna è Dhyana, in quanto sono una stessa cosa.
Questo è uno dei temi costantemente riaffermati da tutti i maestri Zen che hanno seguito Hui-neng. To-chu Hui-hai continua: “Lasciate che vi dia un’illustrazione, in modo che il vostro dubbio possa essere chiarito e possiate sentirvi ristorati. E’ come uno specchio scintillante che riflette l’immagine. Quando lo specchio fa ciò, il suo splendore ne risente forse in qualche modo? No, esso non ne risente. Ne risente quando nessuna Immagine si riflette? No, non ne risente. Perché? Perché l’uso dello specchio lucente è scevro da affezioni e quindi la sua riflessione non viene mai offuscata. Che vi siano immagini riflesse o no, il suo splendore non subisce cambiamenti. Perché? Perché ciò che è scevro da affezioni non conosce mutamenti in nessuna circostanza. “Ancora, è come il sole che illumina il mondo. Ne subisce la luce qualche cambiamento? No, non lo subisce. Cosa accade quando non illumina il mondo? Neppure allora vi sono cambiamenti. Perché? Perché la luce è libera da affezioni e perciò, sia che illumini degli oggetti, sia che non li illumini, la luce intatta del sole è eternamente al di sopra del mutamento. “Ora, la luce che illumina è Prajna e l’immutabilità è Dhyana. Il Bodhisattva usa Dhyana e Prajna nella loro unità e così raggiunge l’illuminazione. Perciò si dice che usando Dhyana e Prajna nella loro unità s’intende l’emancipazione. Vorrei aggiungere che essere liberi da affezioni significa l’assenza delle passioni e non quella delle nobili aspirazioni (che sono scevre dalla concezione dualistica dell’esistenza) Nella filosofia Zen, di fatto in tutta la filosofia buddhista, non si fanno distinzioni tra termini logici e termini psicologici e gli uni si traducono negli altri abbastanza facilmente. Dal punto di vista della vita, tali distinzioni non possono esistere, perché qui la logica è psicologia e la psicologia è logica. Per questa ragione la psicologia di Ta-chu Hui-hai diviene logica con Shen-hui, ed entrambi si riferiscono alla stessa esperienza. Si legge nei Detti di Shen-hui): “Uno specchio lucente è collocato su un alto piedistallo; la sua luce raggiunge le diecimila cose, che tutte si riflettono in esso. I maestri usano considerare questo fenomeno come straordinariamente meraviglioso. Ma per la mia scuola, esso non è da considerarsi meraviglioso. Perché? Questo specchio lucente raggiunge con la sua illuminazione le diecimila cose, e queste diecimila cose non si riflettono in esso. Ecco ciò che io chiamerei straordinariamente meraviglioso. Perché? Il Tathagata discrimina tutte le cose col non-discriminante Prajna (chih). Se egli avesse qualche intelletto discriminante, credete che potrebbe discriminare tutte le cose? Il termine cinese per ‘discriminazione’ è fen-pieh, che è una traduzione del sanscrito wikalpa, uno dei termini buddhisti importanti, usati in vari Sutra e Sastra. Il significato originale dei caratteri cinesi è “dividere e tagliare con un coltello’, che corrisponde esattamente all’etimologica del sanscrito viklpa. Per ‘discriminazione’ s’intende perciò conoscenza analitica, la comprensione relativa e sconnessa che usiamo nei nostri quotidiani rapporti della vita, e anche nei nostri pensieri altamente speculativi. Poiché l’essenza del pensiero è di analizzare – ossia discriminare – più afflato è il coltello di dissezione, più sottile sarà la speculazione che ne risulta. Ma secondo il modo di pensare buddhista o, piuttosto, secondo l’esperienza buddhista, questo potere di discriminazione è basato sul non-discriminante Prajna (chih o chih-hui). Questo è ciò che vi è di più fondamentale nell’umano intelletto ed è con questo che siamo in grado di vedere addentro nell’autonatura, che tutti noi possediamo e che è anche conosciuta come natura del Buddha. In verità Autonatura è il Prajna stesso, come è già stato ripetutamente affermato. E questo Prajna non-discriminante è ciò che è scevro da affezioni, termine usato da Ta-chu Hui-hai per caratterizzare lo specchio-mente. Pertanto, ‘Prajna non-discriminante’, scevro da affezioni’, ‘ab initio nessuna cosa è’, sono tutte espressioni che indicano una stessa fonte, che è la sorgente dell’esperienza Zen.
Ora il problema è il seguente: Com’è possibile alla mente umana passare dalla discriminazione alla non-discriminazione, dalle affezioni all’assenza di affezioni, dall’essere al non-essere, dalla relatività al vuoto, dalle diecimila cose alla natura-specchio senza contenuto, o Autonatura, o per usare l’espressione buddhistica, dal mayoi (mi in cinese), al satori Come questo passaggio sia possibile è il grande mistero non solo del Buddhismo, ma di tutte le religioni e le filosofie. Finché questo mondo, così com’è concepito dalla mente umana, è il regno degli opposti, non vi è modo di sfuggirvi e di entrare in un mondo di vuoto, dove è da supporre che tutti gli opposti si fondano. Cancellare le moltitudini, indicate come le diecimila cose, allo scopo di vedere addentro nella stessa natura-specchio, è un’impossibilità assoluta.
Eppure tutti i buddhisti cercano di riuscirvi. In termini filosofici il problema non è posto in modo appropriato.
Non è il cancellare le moltitudini, non è il passare dalla discriminazione alla non-discriminazione, dalla relatività al vuoto, ecc. Dove si accetta il processo di cancellatura, l’idea è che quando la cancellatura è completa, lo specchio mostra il suo originario splendore e perciò il processo è continuo, lungo la stessa linea di moto. Ma sta di fatto che questo stesso cancellare è l’opera dell’originario splendore. originario’ non ha riferimento al tempo, nel senso che lo specchio era, una volta nel suo remoto passato, puro e incontaminato e che, poiché ora non lo è più deve essere lucidato per restituirlo al suo primitivo splendore. Lo splendore è sempre là, anche quando si crede che lo specchio sia ricoperto di polvere e non rifletta più gli oggetti come dovrebbe. Lo splendore non è cosa che debba essergli restituita; non è cosa che appare al termine del processo; esso non è mai scomparso dallo specchio.
Questo è ciò che s’intende quando il T’an-ching e altri scritti buddhistici affermano che la natura del Buddha è la stessa in tutti gli esseri, in quelli ignoranti come in quelli sapienti. Poiché il raggiungimento del Tao non indica un continuo procedere dall’errore alla verità, dall’ignoranza all’illuminazione, dal mayoi al satori, i maestri Zen proclamano tutti che non vi è alcuna illuminazione che sia possibile affermare di aver raggiunto. Se affermate di aver raggiunto qualcosa, questa è la prova più sicura che vi siete smarriti. Perciò, non avere è avere, il silenzio è tuono; l’ignoranza è illuminazione; i santi discepoli del sentiero della Purezza vanno all’inferno, mentre i Bhikshu che violano i precetti, raggiungono il Nirvana; spolveratura vuol dire accumulo di sporcizia; tutti questi detti paradossali – e la letteratura Zen ne è piena – non sono che altrettante negazioni del moto continuo dalla discriminazione alla non-discriminazione, dalla possibilità di essere affetti alla non possibilità di essere affetti, ecc. ecc. L’idea di un continuo movimento non riesce a spiegare fatti quali. primo, che il corso del moto si ferma allo specchio splendente originario e non fa altri tentativi per continuare all’infinito; secondo, che la pura natura dello specchio si lascia contaminare, cioè a dire che da un oggetto diviene un altro oggetto assolutamente contraddittorio. Per dirla in altro modo: la negazione assoluta è necessaria, ma è possibile allorché il processo è continuo? Questa è la ragione per la quale Hui-neng persiste nel contestare la concezione tanto cara ai suoi oppositori. Egli non adotta la dottrina della continuità che si identifica con la Scuola Graduale di Shen-hsiu. Tutti quelli che accettano l’idea di un moto continuo appartengono a questa scuola. Hui-neng, d’altro canto è il campione della Scuola Improvvisa. Secondo questa scuola, il passaggio dal mayoi al satori è improvviso e non graduale, distinto e non continuo. Che il processo d’illuminazione sia improvviso, significa che vi è un salto, logico e psicologico, nell’esperienza buddhistica. II salto logico è che il comune processo di ragionamento si arresta di colpo, e si percepisce che quanto era stato considerato irrazionale è perfettamente naturale. Il salto psicologico è che i limiti della coscienza vengono sorpassati e ci si trova immersi nell’inconscio che non è, dopo tutto, inconscio.
Questo processo è discontinuo, improvviso e assolutamente incalcolabile; questo è “Vedere nella propria Autonatura”. Da qui la seguente osservazione di Hui-neng: “O amici, mentre studiavo sotto Jen, il Maestro, io ebbi un satori (wu), semplicemente con l’ascoltare una sola volta le sue parole, e improvvisamente vidi addentro la natura originaria dell’Assoluta Essenza. Questa è la ragione per cui desidero che questo insegnamento venga propagato, di modo che coloro che cercano la verità possano anch’essi avere un’improvvisa percezione del Bodhi, possano vedere ognuno di per sé che cos’è la propria mente, che cos’è la propria natura originaria…
Tutti i Buddha del passato, presente e futuro e tutti i Sutra appartenenti alle dodici divisioni sono nell’autonatura di ogni individuo, là dove erano dal principio. … Vi è dentro ognuno di noi ciò che sa e da questo si ha un satori. Se nasce un pensiero erroneo, ne conseguono falsità e perversioni, e nessun estraneo, per quanto saggio, può istruire dall’esterno tali persone che sono in verità al di là di ogni aiuto. Ma se avviene un’illuminazione per mezzo di genuino Prajna, tutte le falsità svaniscono all’istante. Se la propria autonatura viene compresa, il proprio satori basta a far ascendere a uno stato di buddhità.
O, amici, quando di questo non-legame vi è un Uso simultaneo (di Dhyana e Prajna). Il Bodhisattva sa sempre come fare Uso del vuoto, e con ciò raggiunge l’Ultimo. Perciò si dice che per unità di Dhyana e Prajna s’intende l’Emancipazione”.
Che il Dhyana non abbia niente a che fare col semplice star seduti a gambe incrociate in meditazione, com’è generalmente supposto dai profani, o com’è stato affermato da Shen-hsiu e dalla sua scuola fino dal tempo di Hui-neng, è asserito qui nel modo più inequivocabile. Dhyana non è quietismo, né tranquillità; è invece agire, movimento, compimento di azioni, vedere, udire, pensare, ricordare; Dhyana si raggiunge dove, per così dire, non viene praticato alcun Dhyana; Dhyana è Prajna e Prajna è Dhyana, in quanto sono una stessa cosa.
Questo è uno dei temi costantemente riaffermati da tutti i maestri Zen che hanno seguito Hui-neng. To-chu Hui-hai continua: “Lasciate che vi dia un’illustrazione, in modo che il vostro dubbio possa essere chiarito e possiate sentirvi ristorati.
E’ come uno specchio scintillante che riflette l’immagine. Quando lo specchio fa ciò, il suo splendore ne risente forse in qualche modo? No, esso non ne risente. Ne risente quando nessuna Immagine si riflette? No, non ne risente. Perché? Perché l’uso dello specchio lucente è scevro da affezioni e quindi la sua riflessione non viene mai offuscata. Che vi siano immagini riflesse o no, il suo splendore non subisce cambiamenti. Perché? Perché ciò che è scevro da affezioni non conosce mutamenti in nessuna circostanza. “Ancora, è come il sole che illumina il mondo. Ne subisce la luce qualche cambiamento? No, non lo subisce. Cosa accade quando non illumina il mondo? Neppure allora vi sono cambiamenti. Perché? Perché la luce è libera da affezioni e perciò, sia che illumini degli oggetti, sia che non li illumini, la luce intatta del sole è eternamente al di sopra del mutamento.
“Ora, la luce che illumina è Prajna e l’immutabilità è Dhyana. Il Bodhisattva usa Dhyana e Prajna nella loro unità e così raggiunge l’illuminazione. Perciò si dice che usando Dhyana e Prajna nella loro unità s’intende l’emancipazione. Vorrei aggiungere che essere liberi da affezioni significa l’assenza delle passioni e non quella delle nobili aspirazioni (che sono scevre dalla concezione dualistica dell’esistenza) Nella filosofia Zen, di fatto in tutta la filosofia buddhista, non si fanno distinzioni tra termini logici e termini psicologici e gli uni si traducono negli altri abbastanza facilmente. Dal punto di vista della vita, tali distinzioni non possono esistere, perché qui la logica è psicologia e la psicologia è logica.
Per questa ragione la psicologia di Ta-chu Hui-hai diviene logica con Shen-hui, ed entrambi si riferiscono alla stessa esperienza. Si legge nei Detti di Shen-hui: “Uno specchio lucente è collocato su un alto piedistallo; la sua luce raggiunge le diecimila cose, che tutte si riflettono in esso. I maestri usano considerare questo fenomeno come straordinariamente meraviglioso. Ma per la mia scuola, esso non è da considerarsi meraviglioso. Perché? Questo specchio lucente raggiunge con la sua illuminazione le diecimila cose, e queste diecimila cose non si riflettono in esso. Ecco ciò che io chiamerei straordinariamente meraviglioso. Perché? Il Tathagata discrimina tutte le cose col non-discriminante Prajna. Se egli avesse qualche intelletto discriminante, credete che potrebbe discriminare tutte le cose? Il termine cinese per ‘discriminazione’ è fen-pieh, che è una traduzione del sanscrito wikalpa, uno dei termini buddhisti importanti, usati in vari Sutra e Sastra.
Il significato originale dei caratteri cinesi è “dividere e tagliare con un coltello’, che corrisponde esattamente all’etimologica del sanscrito.
Per ‘discriminazione’ s’intende perciò conoscenza analitica, la comprensione relativa e sconnessa che usiamo nei nostri quotidiani rapporti della vita, e anche nei nostri pensieri alta- mente speculativi. Poiché l’essenza del pensiero è di analizzare – ossia discriminare – più afflato è il coltello di dissezione, più sottile sarà la speculazione che ne risulta. Ma secondo il modo di pensare buddhista o, piuttosto, secondo l’esperienza buddhista, questo potere di discriminazione è basato sul non-discriminante Prajna.
Questo è ciò che vi è di più fondamentale nell’umano intelletto ed è con questo che siamo in grado di vedere addentro nell’auto- natura, che tutti noi possediamo e che è anche conosciuta come natura del Buddha. In verità Autonatura è il Prajna stesso, come è già stato ripetutamente affermato. E questo Prajna non-discriminante è ciò che è scevro da affezioni, termine usato da Ta-chu Hui-hai per caratterizzare lo specchio-mente. Pertanto, ‘Prajna non-discriminante’, scevro da affezioni’, ‘ab initio nessuna cosa è’, sono tutte espressioni che indicano una stessa fonte, che è la sorgente dell’esperienza Zen.
Ora il problema è il seguente: Com’è possibile alla mente umana passare dalla discriminazione alla non-discriminazione, dalle affezioni all’assenza di affezioni, dall’essere al non-essere, dalla relatività al vuoto, dalle diecimila cose alla natura-specchio senza contenuto, o Autonatura, o per usare l’espressione buddhistica, dal mayoi (mi in cinese), al satori Come questo passaggio sia possibile è il grande mistero non solo del Buddhismo, ma di tutte le religioni e le filosofie. Finché questo mondo, così com’è concepito dalla mente umana, è il regno degli opposti, non vi è modo di sfuggirvi e di entrare in un mondo di vuoto, dove è da supporre che tutti gli opposti si fondano. Cancellare le moltitudini, indicate come le diecimila cose, allo scopo di vedere addentro nella stessa natura-specchio, è un’impossibilità assoluta. Eppure tutti i buddhisti cercano di riuscirvi. In termini filosofici il problema non è posto in modo appropriato. Non è il cancellare le moltitudini, non è il passare dalla discriminazione alla non-discriminazione, dalla relatività al vuoto, ecc.
Dove si accetta il processo di cancellatura, l’idea è che quando la cancellatura è completa, lo specchio mostra il suo originario splendore e perciò il processo è continuo, lungo la stessa linea di moto. Ma sta di fatto che questo stesso cancellare è l’opera dell’originario splendore. originario’ non ha riferimento al tempo, nel senso che lo specchio era, una volta nel suo remoto passato, puro e incontaminato e che, poiché ora non lo è più deve essere lucidato per restituirlo al suo primitivo splendore. Lo splendore è sempre là, anche quando si crede che lo specchio sia ricoperto di polvere e non rifletta più gli oggetti come dovrebbe.
Lo splendore non è cosa che debba essergli restituita; non è cosa che appare al termine del processo; esso non è mai scomparso dallo specchio. Questo è ciò che s’intende quando il T’an-ching e altri scritti buddhistici affermano che la natura del Buddha è la stessa in tutti gli esseri, in quelli ignoranti come in quelli sapienti. Poiché il raggiungimento del Tao non indica un continuo procedere dall’errore alla verità, dall’ignoranza all’illuminazione, dal mayoi al satori, i maestri Zen proclamano tutti che non vi è alcuna illuminazione che sia possibile affermare di aver raggiunto. Se affermate di aver raggiunto qualcosa, questa è la prova più sicura che vi siete smarriti. Perciò, non avere è avere, il silenzio è tuono; l’ignoranza è illuminazione; i santi discepoli del sentiero della Purezza vanno all’inferno, mentre i Bhikshu che violano i precetti, raggiungono il Nirvana; spolveratura vuol dire accumulo di sporcizia; tutti questi detti paradossali – e la letteratura Zen ne è piena – non sono che altrettante negazioni del moto continuo dalla discriminazione alla non-discriminazione, dalla possibilità di essere affetti alla non possibilità di essere affetti, ecc. ecc. L’idea di un continuo movimento non riesce a spiegare fatti quali. primo, che il corso del moto si ferma allo specchio splendente originario e non fa altri tentativi per continuare all’infinito; secondo, che la pura natura dello specchio si lascia contaminare, cioè a dire che da un oggetto diviene un altro oggetto assolutamente contraddittorio.
Per dirla in altro modo: la negazione assoluta è necessaria, ma è possibile allorché il processo è continuo? Questa è la ragione per la quale Hui-neng persiste nel contestare la concezione tanto cara ai suoi oppositori. Egli non adotta la dottrina della continuità che si identifica con la Scuola Graduale di Shen-hsiu. Tutti quelli che accettano l’idea di un moto continuo appartengono a questa scuola. Hui-neng, d’altro canto è il campione della Scuola Improvvisa. Secondo questa scuola, il passaggio dal mayoi al satori è improvviso e non graduale, distinto e non continuo. Che il processo d’illuminazione sia improvviso, significa che vi è un salto, logico e psicologico, nell’esperienza buddhistica. Il salto logico è che il comune processo di ragionamento si arresta di colpo, e si percepisce che quanto era stato considerato irrazionale è perfettamente naturale. Il salto psicologico è che i limiti della coscienza vengono sorpassati e ci si trova immersi nell’inconscio che non è, dopo tutto, inconscio. Questo processo è discontinuo, improvviso e assolutamente incalcolabile; questo è “Vedere nella propria Autonatura”. Da qui la seguente osservazione di Hui-neng: “O amici, mentre studiavo sotto Jen, il Maestro, io ebbi un satori (wu), semplicemente con l’ascoltare una sola volta le sue parole, e improvvisamente vidi addentro la natura originaria dell’Assoluta Essenza. Questa è la ragione per cui desidero che questo insegnamento venga propagato, di modo che coloro che cercano la verità possano anch’essi avere un’improvvisa percezione del Bodhi, possano vedere ognuno di per sé che cos’è la propria mente, che cos’è la propria natura originaria… Tutti i Buddha del passato, presente e futuro e tutti i Sutra appartenenti alle dodici divisioni sono nell’autonatura di ogni individuo, là dove erano dal principio.
Vi è dentro ognuno di noi ciò che sa e da questo si ha un satori. Se nasce un pensiero erroneo, ne conseguono falsità e perversioni, e nessun estraneo, per quanto saggio, può istruire dall’esterno tali persone che sono in verità al di là di ogni aiuto. Ma se avviene un’illuminazione per mezzo di genuino Prajna, tutte le falsità svaniscono all’istante.
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 Suzuki La dottrina Zen del Vuoto mentale Pag. 50

Secondo Hui-neng, il concetto d’inconscio è la base del Buddhismo Zen. Di fatto, egli propone tre concetti come contenuto dello Zen, di cui uno è l’inconscio; gli altri due sono “l’informe” e il “non-permanente”. Hui-neng continua: Per “informe” s’intende essere nella forma eppur distaccati da essa; per inconscio s’intende aver pensieri, eppur non averne; quanto al “non-permanente”, esso è la natura primaria dell’uomo.
L’altra sua definizione dell’inconscio è: “O buoni amici, non avere la mente macchiata mentre è in contatto con tutte le circostanze della vita questo è essere nell’Inconscio. E’ essere sempre distaccati dalle condizioni oggettive nella propria coscienza, non lasciar risvegliare la propria mente dal contatto con le condizioni oggettive…

 

Dal Tan-Ching (Hui Neng)

Estratto da: la dottrina Zen del vuoto mentale di T. D. Suzuki ed Adelphi

24. Mahaprajnaparamita è un termine sanscrito della terra occidentale; in cinese (T’ang) significa ‘grande saggezza, l’altra sponda raggiunta’. Questa Verità deve essere vissuta, non soltanto pronunciata a parole. Se non è vissuta, è come un fantasma, un’apparizione.
Lo stato di Dharmakaya dello Yogi è uguale a quello del Buddha. Cosa significa maha? Maha significa ‘grande’. La capacità della Mente è ampia e grande, come il vuoto dello spazio. Ma star seduti con la mente vuota fa cadere nel vuoto dell’indifferenza. Lo spazio contiene il sole, la luna, le stelle, le costellazioni, la grande terra, le montagne e i fiumi. Tutte le erbe e le piante, gli uomini buoni e cattivi, le cose buone e cattive, l’inferno e il paradiso, sono nello spazio vuoto. Il vuoto della natura del Sé in tutti gli uomini è uguale ad esso.
25. La natura del Sé contiene nel vuoto tutti gli oggetti: quindi è grande. Tutti gli oggetti senza alcuna eccezione sono nella natura del sé. Osservando tutti gli esseri umani e non umani così come sono, il bene e il male, le cose buone e cattive, non li abbandona, né è contaminata da essi; è come il vuoto dello spazio. Quindi si chiama grande, cioè maha.
Chi è confuso dice queste cose a parole; il saggio le vive nella sua mente. Inoltre, le persone con le menti confuse pensano che sia grande solo se svuotano la mente dei pensieri: questo non è giusto. La capacità della Mente è grande; ma se la vita non l’accompagna è piccola.
Non dite questo soltanto a parole. Chi non impara a vivere la sua vita, non è mio discepolo.
26. Cos’è la prajna? La prajna è la saggezza. Se i tuoi pensieri non sono continuamente ottenebrati, e se vivi in continuazione la saggezza, questa è la vita della Prajna. Se anche un solo pensiero è ottenebrato, la Prajna non è più in azione.
Se anche un solo pensiero è saggio, cioè è illuminato, nasce la Prajna. Pur avendo sempre la mente ottenebrata, gli uomini dicono di vivere la Prajna. La Prajna non ha forma né aspetto, non è altro che l’essenza della saggezza.
Cos’è la Paramita? È un termine sanscrito della terra occidentale. In T’ang significa “l’altra sponda raggiunta” Se si capisce il significato di questo termine, ci si separa dalla nascita e dalla morte.
Se ci si lega a questo mondo oggettivo, appaiono la nascita e la morte, così come le onde appaiono dall’acqua. Questo si chiama “questa sponda”. Quando ci si stacca dal mondo oggettivo non vi è nascita e morte e si è come l’acqua che segue costantemente il suo corso.
Questo è “raggiungere l’altra sponda”. Da qui il termine Paramita. Chi è confuso dice soltanto la parola (Prajna) ma il saggio la vive nella sua mente.
Nello stesso momento in cui è detta soltanto a parole, diventa falsità; e se è una falsità non è una realtà. Solo se la Prajna è viva in ogni pensiero, questa è realtà. Chi capisce questa verità, capisce la verità della Prajna e pratica la vita della Prajna. Chi non la pratica è una persona qualunque. Se tu la pratichi e la vivi in ogni tuo pensiero, sei uguale a Buddha, Buoni amici, le passioni non sono altro che illuminazione (bodhi). Se il vostro pensiero precedente è confuso la vostra è una mente qualunque; ma non appena il pensiero successivo è illuminato, siete un Buddha.
Buoni amici, la Prainaparamita è la più onorata, la più grande e la più alta; non è in nessun luogo, non va e non viene; tutti i Buddha del passato, del presente e del futuro derivano da essa. Per mezzo della Grande Saggezza (mahaprajna) che porta all’altra sponda (paramita), i cinque skandha, le passioni e le innumerevoli follie sono distrutti. Quando si pratica questa disciplina si è un Buddha, e le tre passioni, desiderio, rabbia e follia si trasformano in Moralità (Sila), Meditazione (dhyana) e Saggezza (praina).
27. Buoni amici, secondo il mio modo di capire questa verità, da una sola Prajna derivano 84,000 saggezze. Questo perché vi sono 84.000 follie. Se non vi fossero queste innumerevoli follie, la Prajna sarebbe eternamente presente e non divisa dalla natura del Sé. Chi comprende questa verità è libero dai pensieri, dai ricordi e dagli attaccamenti, in lui non v’è errore o falsità.
Qui l’Essenza della Quiddità è presente tramite se stessa.
Se tutte le cose fossero considerate alla luce della saggezza non ci sarebbe né attaccamento né distacco. Questo vuol dire vedete nella propria natura e raggiungere la verità della condizione di Buddha.
28. Buoni amici, se volete entrare nel profondissimo regno della Verità (Dharmadhatu) e raggiungere il Prajnasamadhi, dovete iniziare subito ad esercitarvi nella vita della Prajnaparamita; dedicatevi al solo volume del Vajracchedika-prajnaparamita Sutra, e, osservando la natura del vostro essere, entrerete nel Prajnasamadhi. Dovete sapere che il vostro merito sarebbe senza misura, come è detto nei sutra di cui non ho bisogno di parlare in dettaglio.
Questa Verità dell’ordine supremo è insegnata alle persone di grande intelligenza e di capacità superiori. Se l’ascoltassero persone di poca intelligenza e di capacità inferiori, la fede non si risveglierebbe nelle loro menti.
Perché? Sarebbe come un grande drago che fa piovere nei torrenti del Jambudipa: città, paesi e villaggi sono inondati e spazzati via dalle acque, come se fossero le foglie di una pianta. Ma se la pioggia, per quanta fosse, cadesse sul grande mare, esso non aumenterebbe né diminuirebbe. Quando una persona del Grande Veicolo ascolta questo discorso, la sua mente si apre ed egli capisce per intuito.
Apprende così che la sua Natura è in origine dotata della saggezza della Prajna e che tutte le cose devono essere viste alla luce di questa saggezza; e non ha bisogno di dipendere dalle lettere. È come l’acqua della pioggia che non si conserva mai in cielo; il re-drago la estrae dai fiumi e dai mari, cosicché tutti gli esseri e le piante, senzienti e non-senzienti, si bagnano.
Tutte le acque che scorrono di nuovo insieme si versano poi nel grande mare, e il mare che accetta tutte le acque le fonde in una sola. Lo stesso è per la saggezza della Prajna che è la Natura originale di tutti gli esseri.
29. Quando una persona di capacità inferiori ascolta la dottrina immediata di cui si parla qui, è come una di quelle piante che per natura crescono piccole, e che, inzuppate da una forte pioggia, non riescono ad alzarsi e a continuare la loro crescita.
Così è per una persona di capacità inferiori. Pur essendo dotata della saggezza della Prajna come le persone di grande intelligenza, non riesce a intuire la Verità neanche mentre l’ascolta, a causa dei pesanti ostacoli prodotti dalle idee sbagliate e dalle sue passioni profondamente radicate.
È come una nuvola che oscura il sole: finché non si apre con forza i raggi di luce non sono visibili. Non c’è grandezza né piccolezza nella saggezza della Prajna, ma poiché tutti gli esseri hanno in sé pensieri confusi, cercano il Buddha per mezzo di esercizi formali, senza riuscire a penetrare nella natura del loro Sé. Ecco perché sono chiamate persone di capacità inferiori. Coloro i quali ascoltano questa dottrina ‘Immediata’ e non intraprendono esercizi formali, ma riflettendo dentro di sé elevano sempre la loro Natura originale alla giusta visione della Verità, rimangono…

I Maestri cinesi dello Zen (Huang-Po)

Tratto dall’originale cinese di P’ei-Hsiu

Il Maestro disse:

Tutti i Buddha e tutti gli esseri viventi non sono altro che un’unica Mente: non vi è alcun altro metodo spirituale.

Questa Mente, mai nata, da tempi senza inizio, non ha mai cessato di esistere; né blu né gialla, senza forma né aspetto, non dipende né dall’essere né dal non-essere, né dal vecchio né dal nuovo; non è né lunga né corta, né grande né piccola, aldilà di ogni delimitazione o denominazione, di là da ogni possibilità di essere percepita o considerata come un oggetto; eccola, essa è la Realtà in sé! Ma, alla prima considerazione pensativa, la si perde…

Illimitata e insormontabile si direbbe spazio vuoto! Così, questa mente-unica è il Buddha e tra il Buddha e gli esseri viventi non vi è differenza. Tuttavia, gli esseri viventi cercano sempre da qualche altra parte, attaccandosi ai fenomeni e, così facendo, perdono tutto, perché andando alla ricerca del Buddha con la loro idea del Buddha e ricercando la mente con la loro mente erronea, anche sforzandosi per interi kalpa, non potrebbero approdare a niente. Essi ignorano che il Buddha appare spontaneamente a chi cessa di evocarlo liberandosi dal processo pensativo. Questa mente, dunque, è il Buddha e il Buddha è la totalità degli esseri viventi. Quando egli è un “essere vivente”, la mente non ne viene per niente diminuita e quando essa è il Buddha, per niente aumentata. Se non credete fermamente che questa mente sia il Buddha e se volete praticare attaccandovi ai caratteri particolari (fenomeni) per ottenere i meriti, siete in preda ad un totale malinteso e così devierete dal Sentiero.

Questa mente è il Buddha. Non vi è altro Buddha e neppure altra mente. Questa mente chiara e pura somiglia allo spazio vuoto, perché in nessun punto avrà mai una forma particolare. Quando si suscita uno stato di mente particolare a causa dell’intromissione dei pensieri, ciò vuol dire deviare dalla sostanza delle cose e attaccarsi ai caratteri particolari. Ora, non si è mai visto, da tempi senza inizio, un Buddha attaccato alle “particolarità” (cioè ai fenomeni).

Esercitarsi con le sei paramita e con infinite pratiche, per diventare Buddha, significa seguire una via graduale e, da sempre, non si è mai visto qualcuno diventato “Buddha per gradi”. E’ sufficiente risvegliarsi a questa mente-unica per non aver più la minima realtà da trovare; questa è la vera Buddhità. Il Buddha e gli esseri viventi sono indifferenziati nella mente-unica che, come lo spazio vuoto, non è mai confusa e mai si deteriora. Infatti, guardate il sole che illumina il mondo intero. Al suo levare, la luce si spande sulla terra, ma lo spazio in se stesso non diviene più luminoso. E quando il sole sparisce e le tenebre ricoprono la terra, lo spazio non si oscura affatto. La luce e l’oscurità si scacciano l’un l’altra, ma lo spazio resta vuoto e immutato per sua natura. La stessa cosa accade per questa mente del Buddha e degli esseri viventi.

Vi sono alcuni che considerano il Buddha come portatore dei segni particolari di essere puro, libero e luminoso, mentre al contrario, gli esseri viventi sono portatori di qualità di esseri impuri, offuscati e incatenati al Samsara. Tuttavia, chi afferma questo, non otterrà mai il Risveglio, neanche dopo innumerevoli kalpa, poiché si attacca ai fenomeni. In questa mente-unica, quindi, non c’è nient’altro da cercare, perché la mente stessa è il Buddha.

Oggigiorno, i praticanti che non si sono risvegliati a questa mente in sostanza non fanno che produrre pensieri su pensieri, cercando il Buddha all’esterno e continuano a praticare attaccandosi ai caratteri particolari. Questo è un cattivo metodo e non la Via del Risveglio.

Huang-Po

(Tradotto dal cinese in francese da Patrick Carrè e in italiano da Cristina Martire e Alberto Mengoni)

Essenza dell’insegnamento non-dualista

La vetta più alta del pensiero indiano è contenuta nel Vedanta, che significa fine o conclusione dei Veda. L’Advaita Vedanta , è una cristallina dimostrazione filosofica del Non-dualismo. La filosofia non-dualista è una via pratica e concreta all’autorealizzazione e all’autotrascendenza che porta a conoscere le realtà che i sensi non possono percepire.
L’India ha dato la nascita a grandi maestri dell’Advaita non solo in tempi remoti (ad esempio Shankara nel VI-VII secolo) ma sino ai giorni nostri. Risvegliati come Ramana Maharshi e Nisargadatta Maharaj, che hanno vissuto in decenni recenti, hanno lasciato insegnamenti di incomparabile valore, coerenti con gli antichi classici.
Quando nei primi anni ’90 in India, su suggerimento di un saggio bibliofilo, entrai in contatto con alcune Upanishad del VII secolo, fui subito consapevole che quegli antichi testi indicavano verità fondamentali, affatto dogmatiche, sempre attuali e della massima importanza. Si trattava delle stesse intuizioni che sono esposte nei dialoghi di Sri Ramana e di Sri Nisargadatta. Mi si aprivano davanti un grande spazio di chiarezza e una prospettiva che sentivo profondamente vera. Qualcosa che avevo intuito e vissuto ma che non ero mai stato in grado di esprimere in modo così evidente; avevo vissuto stati simili in gioventù durante un’esperienza perimortale e con le prime sedute di Rebirthing. Mi accorsi che forse erano quelle esperienze di stati di coscienza non ordinaria a permettermi ora di comprendere questi insegnamenti con facilità.
Negli anni ho letto e riletto questi testi dell’Advaita. Li ho considerati così importanti che durante i miei soggiorni in India ho tradotto e poi raccolto nel volumetto “La Saggezza non Dualista” parte della Ribhu Gita (la Gita di Shiva), dell’Avadhoota Gita e altri brani di Upanishad inedite in italiano. Oltre a questi, la lettura di “Io sono Quello” di Nisargadatta Maharaj è stato per me uno dei libri più illuminanti. Ho approfondito l’argomento con i colloqui di Ramana Maharshi, che ho riletto come una meditazione per decine di volte trovandovi sempre ulteriore profondità.
Queste indicazioni dei saggi, assieme alla pratica di breathwork e altre pratiche esperienziali, risvegliano delle intuizioni che rivoluzionano il modo di considerare sé stessi e la vita.
Le letture chiariscono le esperienze interiori e rendono evidente la falsa percezione che ci fa credere di essere individui separati in balia di una realtà priva di senso.
Queste conoscenze non hanno nulla a che fare con metodi o credenze, la fede nel pensiero positivo e le fantasie spiritualistiche dell’idealismo New Age. Non sono vie di fuga dalla realtà, ma consapevolezza del reale.
Le ispirazioni di saggezza che provengono dalla conoscenza di sé, sono di fondamentale importanza per qualunque psicoterapia e per ogni cammino di autorealizzazione, attualmente sono oggetto di studio e ricerca della Psicologia Transpersonale e sono coerenti con i nuovi paradigmi della scienza quantistico-relativistica.
Il significato occulto delle religioni, i misteri della metafisica e delle filosofie iniziatiche, la psicologia del profondo, il processo d’Individuazione suggerito da Jung, si comprendono in modo nuovo ed evidente alla luce di queste conoscenze illuminanti che conducono all’essenza di sé.
Non si tratta infatti di speculazioni astratte, ma di realizzazioni trasformative poiché la retta comprensione di sé stessi può davvero dissolvere i conflitti, donare equilibrio e serenità e aprire la strada alla saggezza intuitiva che guida all’autorealizzazione.
Conoscere sé stessi e cogliere la natura non divisa dell’Essere è sia la cosa più semplice da realizzare, sia la cosa più difficile. Il Sé é qualcosa che non si può trovare perché non lo si è mai perduto e perché non è “qual-cosa” e abbiamo bisogno di scuoterci dal sonno per poterlo riconoscere.
Ipnotizzati dal mondo del divenire abbiamo dimenticato chi siamo e ci perdiamo nella camera a specchi della mente.
Insegnamenti che in passato pochi iniziati potevano avvicinare sono ora diffusi in pubblicazioni cui tutti possono accedere, ma queste perle rare sono mescolate a un gran numero di falsi insegnamenti.
La maggior parte di ciò che il mercato offre è di più facile lettura e propone tecniche e metodi a sostegno dell’ego e allettanti promesse di potere personale e successo materiale.
Mentre nel non-dualismo troviamo verità che annullano le pretese dell’ego e che possono essere comprese solo attraverso l’intuizione e con sincera aspirazione per la verità quando si è maturi per coglierle.
I testi che cercano di semplificare riducendo l’esperienza alla comprensione di meri concetti ne stravolgono completamente il significato.
Non si tratta infatti di capire le parole né di coltivare nuove idee, ma piuttosto di immedesimarsi  negli  insegnamenti con sincera passione. A “chi” appare l’evanescente mondo del pensiero? Cos’è la consapevolezza che mi permette di osservare “le sensazioni”?
Non ha forma e non può esser vista perché è sempre soggetto e mai oggetto, è il testimone che non può avere un testimone come insegna Shiva nella Ribhu Gita. 

Tutto il mondo delle percezioni è contenuto nella Coscienza e la liberazione deriva dalla conoscenza di sé come essenza a monte di qualunque identificazione, priva di forma e di attributi.

La domanda essenziale dell’Advaita Vedanta è: “Chi sono io?” alla quale ci si accorge di non poter trovare risposta, e in questa sospensione del pensiero e nel sapere di non sapere si possono aprire ampi orizzonti interiori. Non posso vedere colui che vede, né trovare il pensatore dei pensieri, il quale, sottoposto ad indagine, si rivela esso stesso un pensiero, che scompare appena sospendo il processo pensativo.

Si trascende il pensiero senza escludere quella saggezza discriminante che è un ingrediente indispensabile per non cadere in un mare di contraddizioni e paradossi. Per giungere alla conoscenza del Sé, devo scartare ciò che non sono. Di certo tutte le immagini e i pensieri su di me e sul mondo non sono me. La memoria del passato e di quanto ho vissuto non è me e neppure i desideri e il chiacchierio mentale cui assisto.

L’immagine che ho di me è anch’essa un pensiero. Quando rivolgo la mente all’interno, alla ricerca del testimone dei pensieri, riconosco che non c’è nessun “io” ma solo lo spazio di una consapevolezza impersonale e onnipervadente che è il substrato di tutte le sensazioni fisiche e mentali e di tutte le percezioni sensoriali (un vuoto privo di dimensioni che contiene ogni cosa).

Non ha centro, non ha caratteristiche come l’assoluta trasparenza e la vacuità e riconosco di essere coscienza solo quando non mi identifico in un oggetto-immagine proiettato dal pensiero.

Questa coscienza di Essere (prima di immaginare di essere “questo o quello”) è il Sé, terribilmente semplice e vicina e nello stesso tempo inafferrabile.

Questo Atman trascende il corpo e la mente e non è separabile da Brahman[1] (l’Assoluto) che trascende anche il testimone. Senza di esso non ci sarebbero lo spazio e il tempo che per esistere necessitano di qualcuno-qualcosa che li contenga.

Quando ci si immedesima nell’Atman si sperimenta “Sat-Cit-Ananda” (Essere-Coscienza-Beatitudine) uno stato che le parole non possono descrivere e che può comprendere solo chi lo vive.

La coscienza per manifestarsi ha bisogno di un corpo sostenuto dal respiro e dal cibo. Nel mondo fisico tutto pulsa, tutto è vibrazione e onde di diversa frequenza: sistole-diastole, inspirazione-espirazione, notte-giorno, tutto è percepito attraverso le coppie di opposti, caldo-freddo, luce-ombra, bene-male, ecc.

Il sorgere e il tramontare della coscienza si manifestano nei cicli di sonno-veglia, vita-morte, Essere-Non essere. Nella realtà non-duale le polarità e la divisione tra “osservatore e osservato” scompaiono nell’interdipendenza di ogni aspetto dell’Unità che tutto sottende. L’Advaita è al di là di dualismo e non dualismo. Chi è il Testimone del sorgere e del tramontare della coscienza? Nel sonno profondo non c’è pensiero né io, ma il Sé rimane, e torna a manifestarsi appena si è richiamati alla veglia. Che cosa è ciò che si situa prima della coscienza di essere e della divisione tra essere e non essere? I saggi dell’Advaita chiamano Parabrahman il substrato della coscienza. Tale stato assoluto è oltre ciò che il pensiero possa concepire e raggiungere.

Su questa impensabilità si è al lungo soffermato Nāgārjuna. Gran parte del suo insegnamento consiste in una critica sia alle dottrine che sottintendono l’esistenza dei fenomeni, sia a quelle che ne negano l’esistenza. Nāgārjuna non presenta alcuna dottrina, poiché l’esperienza della vacuità non è compatibile con alcuna costruzione filosofica. Secondo Nagarjuna l’idea stessa della vacuità rischia di essere pericolosa, se la vacuità viene considerata un ente o un oggetto. La vacuità richiede, ed è, la rinuncia a ogni opinione.

Nel Madhyamaka Karira, Le Stanze del Cammino di Mezzo, nel II secolo della nostra era, scriveva:

Laude della Suprema Realtà

Come posso lodarti, Tu non nato e residente in nessun luogo, Tu che sorpassi ogni comparazione mondana, che trascendi la strada delle parole!

Tu non sei né lontano né vicino, né nell’etere né nella terra, né nella trasmigrazione né nel nirvana. Lode a Te, o Signore, che non risiedi dovechessia.

Tu non risiedi in nessun’entità, sei andato nel piano dell’assoluta realtà, hai raggiunto la profondità suprema. Lode a Te, oh Profondo

Con questa lode possa Tu essere lodato. Ma, in realtà, sei stato Tu lodato? Tutte le entità essendo vuote, chi mai è lodato? e da chi è lodato?

E chi Ti può lodare, Tu privo di nascita e di sparizione, Tu dove non c’è né fine né mezzo, né percezione né percepibile? …

È il “Nulla” alla base di “Tutto”. Un’attenta e sincera autoindagine conduce il serio ricercatore ad intuire la realtà non divisa, in cui riconosce la natura atemporale, “non nata” e immortale, in quanto oltre alla dimensione spazio-temporale, della pura consapevolezza che anima ogni cosa. Quest’intuizione diventa un’esperienza mistica quando realizza che questa realtà è lui stesso.  Quest’esperienza trasformativa è libertà dalla prigione della mente, dalla sofferenza e dalla paura. Il risveglio a questa consapevolezza è l’autorealizzazione e la fine del dolore. Non nella fantasia di speranze ultramondane, bensì nella pienezza del quotidiano e in un confronto armonico e spontaneo con il mondo fenomenico. Non è una fuga dal mondo, ma un modo di essere naturalmente in armonia con il dovere quotidiano. Non è qualcosa che trasforma in santi, invero è lo stato naturale della mente non divisa, che si manifesta nell’autenticità spontanea. Non possiamo comprendere queste righe se non realizziamo l’ovvietà di tutto questo. E anche queste sono solo parole, indicazioni per mettere un po’ d’ordine e calmare i dialoghi mentali. Limitarsi alla comprensione delle parole senza esperienza diretta conduce a paradossi dell’impensabile e a confondere la mappa con il territorio. Dalla prospettiva dell’Assoluto tutta la ricerca filosofica e l’io stesso che cerca sono aspetti dell’illusione.

Nel Sé scopriamo che è la vita stessa a prendersi cura di ogni cosa in perfetta armonia senza bisogno di un agente. Superati gli inganni dell’io e dell’inconscio entriamo nel flusso armonico del divenire e troviamo la vera serenità interiore e il modo di vivere nel mondo con efficacia nelle faccende del quotidiano.

Se invece l’ego, per automigliorarsi, cerca il Sé secondo i suoi condizionamenti, ne crea un’immagine ingannevole e caricaturale. Chi cade nel gioco delle illusioni pseudoreligiose finisce nell’inganno dei ruoli spirituali, che è una situazione che, a quanto pare, per essere superata alcuni devono dolorosamente attraversare poiché nell’illusione di essere illuminati si vive una vita inautentica e alienata. La falsa via dell’ego che spinge nel mercato dei maestri che vendono quello che la gente vuole sentirsi dire e falsi insegnamenti che conducono solo a più grandi illusioni.

Secondo l’Advaita e l’esperienza dei mistici, Dio è lo stesso Sé, “Io Sono Colui che È”. Quando l’io si arrende al Sé, l’io stesso diventa una sola cosa con Esso. Ma chi, dopo aver compreso le parole, si arrende davvero? Per questo a meno che circostanze della vita non ci portino oltre noi stessi, le pratiche di autoindagine e Breathwork sono necessarie per la liberazione.

Tu non sei né terra, né acqua né fuoco, né aria, né spazio. Per ottenere la liberazione riconosci il Sé come il testimone di tutto questo e come la Consapevolezza stessa.

Astavakra Samhita

“Se si indaga sull’esistenza dell’io si scoprirà che non esiste, ma se lo si considera esistente e si cerca di controllarlo, cioè se la mente cerca di controllare la mente, la situazione è quella di un ladro che si traveste da poliziotto per arrestare il ladro, cioè lui stesso. In questo modo l’io persiste e inganna sé stesso.”

 Sri Ramana Maharshi

 

Colui che vede che gli atti sono prodotti dalla natura e altresì che il Sé non è agente, quegli vede. Stando così le cose, colui che considera come agente unicamente l’io, quell’uomo debole di mente, a causa dell’immaturità del suo giudizio, non vede realmente.

Bhagavad Gita

 

[1] L’induismo ha come fondamento del messaggio spirituale che tutte le manifestazioni delle cose e degli eventi che ci circondano non siano altro che differenti manifestazioni della realtà ultima, chiamata Brahman. Il Brahman è la realtà ultima, inteso come vero “sé” o l’essenza di tutte le cose. Esso è infinito e trascende tutti i concetti; non può essere compreso né adeguatamente descritto dalle parole. Tuttavia la gente vuole parlare di questa realtà e i saggi indù, con la loro caratteristica inclinazione per il mito, hanno raffigurato Brahman come una divinità e ne parlano con linguaggio mitologico. I vari aspetti del divino hanno ricevuto i nomi delle diverse divinità venerate dagli Indù, ma i testi sacri indicano chiaramente che tutte queste divinità non sono altro che riflessi dell’unica realtà ultima. La manifestazione di Brahman nell’anima umana è chiamata Atman e l’idea che Atman è Brahman, la realtà individuale e la realtà ultima siano una cosa sola è l’essenza delle Upanisad: “E’ da questo che tutte sono animate; esso è l’unica realtà, è l’Atman e tu stesso lo sei.”

 

Milano 25 settembre 2017

FILIPPO FALZONI GALLERANI