da Filippo Falzoni Gallerani | Apr 23, 2016

Come è impossibile spiegare la bellezza di un tramonto a un uomo cieco dalla nascita, così è impossibile ai saggi trovare le parole capaci di esprimere la loro saggezza agli uomini di intelligenza inferiore. La saggezza dei saggi non sta, infatti nel loro insegnamento; altrimenti chiunque potrebbe diventare saggio solo leggendo il Bhagavad Gita, i Dialoghi di Platone o le scritture buddiste. In realtà, potremmo studiare questi libri per tutta la vita senza diventare per nulla più saggi, perché cercare l’Illuminazione nelle parole e nelle idee è (per usare una frase del dottor Trigant Burrow) “è come sperare che la vista di un menù influisca sui processi interni di un uomo affamato e lo soddisfi.” Però, nulla è più facile che confondere la saggezza di un saggio con la sua dottrina. Perché chi non comprende la verità può facilmente scambiare per verità la spiegazione che un altro uomo gli dà di ciò che ha compreso. E tuttavia essa non è la verità, così come un cartello stradale non è la città di cui esso indica la direzione. Gautama il Buddha (l’Illuminato) si guardò bene dal descrivere l’Illuminazione che egli raggiunse mentre sedeva una notte sotto un gigantesco albero di fico a Gaya e si narra che, interrogato sui fondamentali misteri dell’universo, “mantenne un nobile silenzio”. Non si stancò mai di dire che la sua dottrina (Dharma) voleva mostrare solo la Via verso l’Illuminazione e non la proclamò mai una rivelazione dell’Illuminazione.
Di qui i versi buddisti:
Quando ti interrogano curiosi, cercando di sapere che cosa Esso sia,
Non affermare nulla, non negare nulla.
Perché ogni cosa affermata non è vera.
E ogni cosa negata non è vera.
Come potrà qualcuno dire con verità che cosa può essere,
Finché egli stesso non ha pienamente raggiunto Ciò che E’?
E dopo che l’ha raggiunto, qual parola si può mandare da una Regione
Dove il carro della parola non trova una via su cui correre?
Dunque alle loro domande offri il silenzio soltanto,
Il silenzio… è un dito che indica la via.
Però, i seguaci del Buddha hanno cercato l’Illuminazione nel dito, invece di andare in silenzio verso il luogo che esso indica; hanno riverito e seguito i suoi detti tramandati, come se fossero il reliquario della sua saggezza, e così ne hanno fatto non solo un reliquario, ma la tomba in cui la morta carcassa di quella saggezza è sepolta. Ma l’Illuminazione è una cosa viva, che non può essere irrigidita in parole; e perciò lo scopo che la scuola buddista Zen si propone è di penetrare oltre le parole e le idee per riportare in vita la visione originale del Buddha. Considera questa visione come l’unica cosa importante, e le scritture soltanto mezzi, espedienti temporanei per mostrare dove quella visione può essere ritrovata. Non cadere mai nell’errore di scambiare gli insegnamenti con la saggezza, perché lo Zen è essenzialmente quel “qualcosa” che determina la differenza fra un Buddha e un uomo comune; è l’Illuminazione contrapposta alla dottrina.
da Filippo Falzoni Gallerani | Apr 22, 2016

<< … >> Concepire la verità come qualcosa d’esterno che il soggetto deve apprendere, è una veduta dualistica che riflette i condizionamenti propri al comune intelletto, ma che non corrisponde a ciò che afferma lo Zen; secondo lo Zen, noi viviamo direttamente nella verità e grazie alla verità, che dunque non ci può essere esterna. Hsuan-sha (Gensha) dice: « E’ come se, immersi fin sopra la testa nell’acqua del grande oceano, tendessimo le braccia a implorare acqua! ». Così quando un monaco gli chiese: « Che è il mio Sé? », egli subito rispose: « Che te ne faresti, di un Sé? ». In termini intellettuali, egli intendeva dire che, non appena cominciamo a parlare di un Sé, noi stabiliamo inevitabilmente il dualismo di Sé e non-Sé, cadendo così nell’errore del pensiero discorsivo. Noi ci troviamo nell’acqua, questo è il fatto; dunque rimaniamoci, direbbe lo Zen, perché se ci diamo a chiedere acqua creeremo un rapporto di esteriorità rispetto ad essa, e quel che fino ad allora era stato nostro ci sarà tolto.
Il seguente episodio va interpretato alla stessa stregua. Un monaco si recò da Hsuan-sha e gli disse: « Mi è stato riferito che voi dite che l’intero universo è un unico cristallo trasparente; come devo intendere tali parole? ». Il maestro rispose: « L’intero universo è un unico cristallo trasparente – e che bisogno c’è di capire? ». L’indomani il maestro chiese lui stesso al monaco: « L’intero universo è un unico cristallo trasparente; come intendi queste parole? ». Il monaco rispose: « L’intero universo è un unico cristallo trasparente – e che bisogno c’è di capire? ». « Vedo », disse il maestro, « che tu vivi nella caverna dei demoni ». Questo sembra un altro caso del metodo delle « ripetizioni », però vi è già qualcosa di diverso, vi è, per così dire, un maggiore elemento intellettuale.
In ogni caso, lo Zen non fa mai appello alla nostra facoltà raziocinante, ma punta direttamente sul soggetto. In una certa occasione, Hsuan-sha offriva il tè ad un ufficiale di nome Wei, che gli chiese: « Che si vuol significare quando si dice che, pur avendolo ogni giorno, noi non lo conosciamo? ». Invece di rispondere, Hsuan-sha prese un pezzo di dolce e glielo offrì. L’ufficiale mangiò il dolce, poi ripeté la domanda, al che il maestro disse: « non lo conosciamo perfino quando l’usiamo ogni giorno ». Un’altra volta venne da lui un monaco che voleva sapere come si entra nel sentiero della verità. Hsuan-sha chiese: « Odi il mormorio del ruscello? ». « Sì, lo odo », disse il monaco. « Ecco un modo per entrare » fu l’insegnamento del maestro. Il metodo di Hsuan-sha consisteva dunque nel far si che il ricercatore della verità realizzasse direttamente in sé ciò che essa è, invece di trasmettergli una conoscenza di seconda mano. « Un Dio compreso non è più Dio », disse Terstegen.
<< … >> Quando si usano delle parole ed esse sono comprensibili, possiamo illuderci che esse ci forniscano la chiave di ciò che si vuole sapere; ma quando ci troviamo dinanzi ad una semplice, inarticolata esclamazione, ben poco vi è da fare, a meno che non si possegga già quel genere di sapere, di cui mi sono sforzato di dare al lettore l’idea.
<…>> Questo ci ricorda un antico mistico, il quale definì Dio come un sospiro ineffabile.
Tratto da: Suzuki, Saggi sul Buddismo Zen edizioni, Mediterranee