L’arte di respirare

“L’alimentazione, l’esercizio fisico, la resilienza dei nostri geni, il fatto che siamo magri, giovani o saggi: niente di tutto questo importa se non respiriamo in modo corretto. La colonna mancante della salute è il respiro. Tutto parte da lì.”
Questo è sottotitolo in copertina del libro di James Nestor, L’arte di Respirare, (2021) che è un compendio dei potenti effetti trasformativi delle pratiche di respirazione portate avanti da ricercatori di campi più diversi, dagli esperti di tecniche orientali, agli psichiatri d’avanguardia, apneisti da record, ai campioni sportivi, sino alle più avanzate ricerche scientifiche di prestigiose università come la Stanford University altri centri che sottopongono la respirazione a sofisticate ricerche empiriche.
Le affermazioni del sottotitolo e molti degli esempi trattati in questo volume, per me sono solo una conferma di ciò che conosco e che da molti anni insegno.
Tuttavia la scuola di Rebirthing Transpersonale che ho fondato, oltre a riconoscere la cruciale importanza della respirazione per ogni aspetto della salute fisica utilizza la respirazione in particolar modo per promuovere il benessere mentale ed emotivo e condurre ai livelli superiori della consapevolezza.
La salute fisica (che comprende l’attivazione delle difese immunitarie di grande importanza in questi tempi di COVID) seppur fondamentale, non è la soluzione dei problemi più importanti dell’individuo.
La salute olistica implica benessere psico-spirituale che è l’ingrediente fondamentale di una vita pienamente vissuta che conduce all’autorealizzazione.
Credo sia importante chiarire che il Rebirthing Transpersonale, non è un esercizio di “corretta respirazione che dobbiamo imparare e poi praticare”, ma un metodo di respirazione intensa che produce in poche sedute sblocchi bioenergetici ed esperienze psicospirituali che modificheranno radicalmente il nostro rapporto con l’attività respiratoria, facendo si che dopo poche sedute si troverà spontaneamente la modalità più corretta di respirare che risponde ai nostri specifici bisogni metabolici.
Una modalità “personale” che quindi non può essere standardizzata.
Dopo le sedute di Rebirthing Transpersonale, infatti, si acquisisce nel modo più naturale una respirazione corretta e sana, senza alcun ulteriore bisogno di applicare intenzionalmente qualche tecnica.
Ci si accorgerà, ad esempio, che nostro sonno è del tutto differente e rigenerante perché durante la notte il nostro respiro sarà libero e armonico e durante la giornata sentiremo il torace e il diaframma più mobili ed elastici, ma soprattutto, attraverso una mente libera dai condizionamenti, dalle paure saremo liberati dal chiacchierio interno, avremo una chiara percezione della realtà e saremo portati ad armonizzare le nostre relazioni e a fluire in armonia con le circostanze della vita.
La seduta comprende, prima della pratica con il respiro delle istruzioni e degli insegnamenti per facilitare le esperienze transpersonali verso il risveglio della consapevolezza che la respirazione può indurre e alla fine della pratica respiratoria un profondo rilassamento per integrare l’esperienza.

Zen e Autonatura (T. D. Suzuki)

Rileggendo libri letti in gioventù mi rendo conto che a circa 40 anni di distanza vedo come reale evidenza quello che allora mia parevano solo elevati concetti e astrazioni lontani dal vivere quotidiano. Nelle pagine precedenti a queste Suzuki inizia con il descrivere gli insegnamenti di Hui Neng (Patriarca dello Zen in Cina nell’ottavo secolo), e la differenza della sua visione non-dualista, del risveglio immediato, con le scuole del nord che insistevano sulla meditazione come costante ripulitura dai pensieri che offuscano la l’essenza luminosa della “Coscienza Specchio”.  In queste poche pagine sono esposti alcuni aspetti di cruciale importanza per chi persegue l’autoindagine e la meditazione. E’ evidente che gli insegnamenti del buddhista Hui Neng in essenza sono simili al Vedanta Hindù e dell’insegnamento non Dualista di Shankara. T. Suzuki è riconosciuto tra i più grandi studiosi dello Zen, ebbe stretti contatti con Heidegger, e anche C. G. Jung lo cita.  Sono pagine incomprensibili per chi non ha dimestichezza con la filosofia orientale, ma di certo comprensibili a chi ha praticato seriamente il Rebirthing Transpersonale.

Tratto da: La dottrina del Vuoto Mentale, T.D. Suzuki Ediz. Astrolabio. da Pag. 38, (i corsivi sono miei)

Quando diciamo: “Vedi nella tua autonatura”, il vedere può essere interpretato come mera percezione, mera coscienza, mero riflettere staticamente sull’autonatura, che è pura e incontaminata e che mantiene la sua qualità in tutti gli esseri, così come in tutti i Buddha. Questa è indubbiamente la concezione che ne ebbe Shen-hsiu. (Il maestro cui Hui Neng si contrappone). Ma, in realtà, il vedere è un atto, un fatto rivoluzionario da parte della conoscenza umana, di cui si è sempre supposto che le funzioni fossero quelle di analizzare logicamente le idee, idee intuite dal loro significato dinamico. II ‘vedere’, specie nel senso di Hui-neng, era molto più di un atto passivo di guardare, una semplice conoscenza ottenuta dal contemplare la purezza dell’autonatura; vedere, secondo lui, era la stessa autonatura che si mostra dinanzi a lui in completa nudità e agisce senza alcuna riserva. In ciò ravvisiamo il grande abisso che divide la Scuola Settentrionale del Dhyana (meditazione) dalla Scuola Meridionale del Prajna (saggezza). La Scuola di Shen-hsiu presta maggiore attenzione all’aspetto ‘Corpo’ dell’autonatura ed esorta i suoi seguaci a concentrare i loro sforzi nello sgombrare la coscienza, così da vedervi il riflesso della autonatura pura e incontaminata. Essi hanno dimenticato che la autonatura non è qualcosa il cui Corpo può essere riflesso nella nostra coscienza allo stesso modo in cui una montagna può vedersi riflessa nella superficie liscia di un lago. Non vi è un tale corpo nell’autonatura, perché il Corpo stesso è l’Uso; oltre all’Uso non vi è Corpo. E con quest’Uso s’intende vedere il Corpo in se stesso. Con Shen-hsiu questa autovisione, o aspetto Prajna dell’autonatura, è completamente ignorata.
La posizione di Hui-neng, al contrario, sottolinea l’aspetto Prajna che si può conoscere dell’autonatura. Questa fondamentale divergenza fra Hui-neng e Shen-hsiu nella concezione dell’autonatura, che è la stessa cosa della natura del Buddha, è stata la causa che li ha fatti procedere in direzioni opposte per quanto riguarda la pratica del Dhyana; vale a dire il metodo di tzo-ch’an (zazen in giapponese).

Si legga il seguente gatha di Shen- hsiu:

Il nostro Corpo è l’albero del Bodhi,
La nostra mente è un lucido specchio;
Noi li puliamo con cura un’ora dopo l’altra
E non lasciamo che vi si posi la polvere.

– A questo Hui Neng ribatterà:“Non vi è albero della Bodhi, Né sostegno per uno specchio, Poiché tutto è vuoto, Dove può poggiarsi la polvere?” (mia nota aggiunta).|-

Nel tipo di meditazione della spolveratura (zazen, il meditare seduti) non è facile spingersi oltre lo stadio di tranquillità della mente; questa è capace di fermarsi proprio allo stadio di quieta contemplazione che Hui-neng definisce come la pratica di ‘montare la guardia alla purezza. Al massimo essa termina nell’estasi, autoconcentrazione, temporanea sospensione della coscienza. In questo tipo di meditazione non vi è ‘vedere’, non vi è alcuna conoscenza del sé, nessuna attiva comprensione dell’autonatura, nessun agire spontaneo di questa, nessun chen-hsing (vedere nella Natura). Il tipo di meditazione della spolveratura è quindi l’arte di legarsi con una corda creata da noi stessi, una costruzione artificiale che ostacola il cammino verso l’emancipazione.
Non c’è da meravigliarsi che Hui-neng e i suoi seguaci abbiano attaccato la scuola della Purezza. Il tipo quietistico di meditazione della spolveratura e della contemplazione della verità, fu probabilmente uno degli aspetti dello Zen insegnato da Hung-jen, maestro di Hui-neng, Shen-hsiu e molti altri. Hui-neng, che comprese il vero spirito dello Zen, molto probabilmente perché non era impacciato dall’erudizione e, di conseguenza, dall’atteggiamento concettuale verso la vita, intuì giustamente il pericolo del quietismo e ammonì i suoi discepoli di evitarlo con ogni mezzo; ma la maggior parte degli altri discepoli di Hung-jen erano più o meno inclini ad adottare il quietismo come metodo ortodosso della pratica del Dhyana.
Prima che Ma-tsu, vedesse Huai-jang di Nan-yueh, era anch’egli un meditatore quietista che ambiva a contemplare il puro nulla dell’autonatura. Quando era ancora giovane, aveva studiato Zen sotto uno dei discepoli di Hung-jen. Perfino quando si recò a Nan-yueh, rimase fedele alla sua vecchia pratica, continuando il suo zazen “sedere in meditazione”.
Da ciò il seguente discorso fra Ma-tsu e Huai-jang, che fu uno dei più grandi discepoli di Hui-neng. Osservando quanto assiduamente Ma-tsu fosse impegnato nel praticare ogni giorno lo zazen, Yuan Huaj-jang disse: “Amico, qual è la tua intenzione nel praticare lo zazen?”.
Ma-tsu disse: “Desidero giungere alla buddhità”. Allora Huai-jang raccolse un mattone e cominciò a levigarlo. Ma-tsu gli chiese: Cosa stai facendo? “Voglio farne uno specchio”. “Nessuna politura riuscirà mai a fare uno specchio da un mattone”. Huai-jang replicò prontamente: Per quanto tu pratichi lo zazen, questo non ti farà mai giungere alla buddhità. Allora, cosa devo fare? domandò Ma-tsu.
“È come guidare un carro”, disse Huai-jang. “Quando si ferma, cosa deve fare il conducente? Frustare il carro o frustare il bue?”. Ma-tsu rimase in silenzio.
Un’altra volta Huai-jang disse: “Intendi diventare maestro di zazen, o intendi giungere alla buddhità? Se desideri studiare lo Zen, lo Zen non è né nello star seduti con le gambe incrociate, né nello star distesi. Se desideri giungere alla buddhità con lo startene seduto in meditazione, il Buddha non ha nessuna forma definita. Quando il Dharma non ha una fissa dimora, tu non puoi farvi nessuna scelta. Se cerchi di giungere alla buddhità stando seduto con le gambe incrociate in meditazione, questo significa assassinare il Buddha. Finché resti legato a questa posizione d’immobilità, non potrai mai giungere alla Mente”.
Così istruito, Ma-tsu, si sentì come se stesse bevendo un delizioso liquore. Inchinandosi, domandò: “Come mi dovrei preparare per poter essere in accordo col Samadhi dell’informe?”. Il maestro disse: “Disciplinarsi nello studio della Mente è come gettare i semi nel terreno; il mio insegnamento nel Dharma è come far cadere la pioggia dall’alto. Quando le condizioni saranno mature tu vedrai il Tao”.
Ma-tsu chiede ancora: “Se il Tao non ha forma, come si può vederlo?”. Il Maestro rispose: “L’occhio del Dharma che appartiene alla Mente è capace di vedere nel Tao. Così è il Samadhi dell’informe”.
MA-tsu: “E’ soggetto al completamento e alla distruzione?”
Maestro: “Se vi applichiamo nozioni quali completamento e distruzione, riunione e dispersione, non potremo mai averne la visione profonda.

In un certo senso si può dire che lo Zen cinese sia realmente cominciato con Ma-tsu e il suo contemporaneo Shih-tou, che furono entrambi discendenti diretti di Hui-neng. Ma prima di confermarsi saldamente nello Zen, Ma-tsu era sempre sotto l’influenza del Dhyana di tipo spolveratura e contemplazione della purezza, e si applicava molto indefessamente alla pratica dello zazen, sedendo a gambe incrociate in meditazione. Egli non aveva alcuna idea del tipo dell’autovisione, nessuna concezione che l’autonatura, la quale è l’essere in sé, fosse autovisione e che non vi fosse Essere oltre il Vedere che è Agire; che questi tre termini Essere, Vedere, Agire erano sinonimi e intercambiabili fra loro. Il Dhyana doveva quindi essere praticato alla luce del Prajna e i due dovevano essere considerati non come concetti separati, ma come un solo concetto. Per tornare a Hui-neng, noi comprendiamo ora perché dovesse insistere sull’importanza del Prajna e teorizzare sull’unità di Dhyana e Prajna.
Nel T’an-ching egli apre la sua Predica con il vedere nella propria autonatura per mezzo del Prajna, di cui è dotato ciascuno di noi, dotto o ignorante che sia. Qui egli adotta il modo convenzionale di esprimersi, non essendo un filosofo originale. Nel ragionamento che abbiamo seguito prima, l’autonatura trova il suo essere quando si vede, e questo vedere avviene per mezzo del Prajna. Ma poiché Prajna è un altro nome dato all’autonatura, quando essa vede se stessa, non vi è Prajna al di fuori dell’autonatura. Il vedere (chien) è anche chiamato riconoscimento o comprensione o, meglio ancora, sperimentare (wu in cinese, satori in giapponese). Il carattere Wu è composto di ‘cuore’ (o mente) e ‘mio’, ossia il ‘mio proprio cuore’, col significato di ‘sentire nel mio proprio cuore’, o esperimentare nella mia propria ‘mente’. Autonatura è Prajna e anche Dhyana quando questo è visto, per così dire, staticamente o ontologicamente.
Prajna ha un significato più epistemologico. Ora Hui-neng afferma l’unità di Prajna e Dhyana. “O buoni amici, nel mio insegnamento ciò che è più fondamentale è il Dhyana (ting) e il Prajna (chien). E, amici, non lasciatevi ingannare e indurre a pensare che Dhyana e Prajna siano separabili. Essi sono uno e non due.
Dhyana è il Corpo di Prajna e Prajna è l’Uso di Dhyana. Quando si persegue il Prajna, Dhyana è nel Prajna; quando Dhyana è perseguito, Prajna è in esso. Quando si è compreso questo, Dhyana e Prajna procedono per mano nella pratica (della meditazione). O seguaci della verità (Tao), non dite che prima si raggiunge il Dhyana e dopo Prajna viene svegliato; e neppure che prima si raggiunge il Prajna e poi Dhyana viene svegliato; perché sono separati. Coloro che sostengono questa veduta fanno del Dharma una dualità; sono quelli che affermano con la bocca e negano col cuore. Essi considerano Dhyana distinto da Prajna.
Ma per coloro la cui bocca è in accordo col cuore, l’interno e l’esterno sono una cosa sola, e Dhyana e Prajna sono considerati uguali (ossia uno)”.
Hui-neng illustra ulteriormente l’idea di questa unità con il rapporto tra la lampada e la sua luce. Dove c’è la lampada c’è la luce; se non c’è la lampada, non c’è luce. La lampada è il Corpo della luce e la luce è l’Uso della lampada. Esse sono chiamate in modo diverso, ma in sostanza sono una cosa sola. Il rapporto fra Dhyana e Prajna deve essere inteso in modo analogo Questa analogia della lampada e della sua luce è una di quelle preferite da tutti i filosofi Zen.
Anche Shen-hui se ne serve nella sua Predica da me scoperta alla Biblioteca Nazionale di Peiping.
Nei suoi Detti troviamo l’opinione di Shen-hui sull’unità di Dhyana e Prajna, espressa in risposta a uno dei suoi interroganti. “Dove nessun pensiero è risvegliato, e il vuoto e il nulla predominano, là esattamente è Dhyana. Quando questo non-risveglio di pensiero, vuoto e nulla, si lasciano percepire, là esattamente vi è il Prajna. Dove avviene questo (mistero), noi diciamo che Dhyana preso a sé è il Corpo di Prajna e non è distinto da Prajna, ed è Prajna stesso; e inoltre che Prajna preso a sé è l’Uso di Dhyana e non è distinto da Dhyana, ed è Dhyana stesso. (In verità), quando Dhyana deve esser preso a sé, non vi è Dhyana; quando Prajna deve esser preso a sé, non vi è Prajna. Perché? Perché (Auto) natura è essenza, e questo è quanto s’intende per identità di Dhyana e Prajna. Su questo punto vi è quindi identità di vedute fra Hui-neng e Shen-hui; ma essendo ancora troppo astratto, può risultar difficile per la comune comprensione afferrarne il reale significato.
In quanto segue, Shen-hui è più concreto, o più accessibile, nella sua esposizione. Wang-wei era un alto funzionario governativo che s’interessava molto al Buddhismo e quando venne a conoscenza del disaccordo fra Shen-hui e Hui-ch’eng, che era precedentemente un seguace di Shen-hsiu, riguardo al Dhyana e al Prajna, egli chiese a Shen-hui: “Perché questo disaccordo? Shen-hui rispose: “Il disaccordo dipende dal fatto che Ch’eng ritiene che si debba prima praticare il Dhyana, e che solo quando è stato raggiunto, Prajna sarà risvegliato. Ma secondo il mio pensiero, nello stesso momento in cui sto conversando con te, qui è Dhyana e qui è Prajna, ed essi sono la stessa cosa. Secondo il Nirvana Sutra quando vi è più Dhyana e meno Prajna, ciò favorisce il crescere dell’ignoranza; quando vi è più Prajna e meno Dhyana, questo favorisce il crescere delle false opinioni; ma quando Dhyana e Prajna sono uguali, ciò viene chiamato vedere nella natura del Buddha.
Per tale ragione dico che non possiamo raggiungere un accordo”.
WANG: “Quando si dice che Dhyana e Prajna sono la stessa cosa?” SHEN-HUI: “Noi parliamo di Dhyana, ma per quanto riguarda il suo Corpo, non vi è in esso nulla di raggiungibile. Si parla di Prajna quando si vede che questo Corpo è irraggiungibile, rimanendo del tutto quiescente e sereno eppur misteriosamente funzionante, in modi che superano ogni calcolo. Qui si osserva che Dhyana e Prajna sono identici”. Tanto Hui-neng, quanto Shen-hsiu sottolineano il significato del- l’occhio del Prajna, il quale, essendo rivolto su se stesso, vede nei misteri dell’Autonatura, L’irraggiungibile è raggiunto, l’eternamente sereno viene percepito, e Prajna s’identifica con Dhyana nelle sue svariate funzioni.
E’ per questo che, mentre sta parlando con Wang-wei, Shen-hui dichiara che in questo parlare è presente tanto il Dhyana quanto il Prajna, che questo stesso parlare è Prajna e Dhyana. Con questo egli intende che Prajna è Dhyana e Dhyana è Prajna. Se diciamo che soltanto nello star seduti a gambe incrociate in meditazione vi è Dhyana, e che quando si è completamente dominato questo tipo di meditazione Prajna viene svegliato per la prima volta, noi eseguiamo un totale distacco fra il Prajna e il Dhyana, in un dualismo che è stato sempre aborrito dai seguaci dello Zen.
Sia che ci si muova o che non ci si muova, sia che si parli o non si parli, deve sempre esserci Dhyana, che è l’eternamente immobile Dhyana. Ancora una volta dobbiamo dire che essere è vedere e vedere è agire; che non vi è essere, ossia Autonatura, senza vedere e agire, e che Dhyana è Dhyana solo quando è contemporaneamente Prajna.

Riportiamo qui di seguito una citazione da Ta-chu Hui-hai, che fu un discepolo Ma-tsu:
D.: “Quando non vi è nessuna parola o discorso, può ciò essere chiamato Dhyana?
P: “Quando io parlo di Dhyana, ciò non ha rapporto col discorrere o non discorrere; il mio Dhyana è l’eternamente immobile Dhyana. Perché? Perché Dhyana è sempre in Uso. Anche quando vengono pronunciate le parole, la conversazione si svolge, o quando predomina il ragionamento discriminativo, vi è Dhyana, perché tutto è Dhyana.

Quando una mente, comprendendo perfettamente il vuoto di tutte le cose, affronta le forme, essa ne percepisce immediatamente il vuoto; per essa il vuoto è sempre presente, che affronti le forme o meno, che discorra o meno, che discrimini o meno. Ciò si applica a ogni cosa che appartiene alla nostra vista, all’udito, alla memoria e alla coscienza in genere. Perché è così? Perché tutte le cose nella loro autonatura sono vuote; e dovunque andiamo troviamo questo vuoto. Poiché tutto è vuoto, non si stabilisce alcun legame e a causa di questo non-legame vi è un Uso simultaneo (di Dhyana e Prajna).
Il Bodhisattva sa sempre come fare Uso del vuoto, e con ciò raggiunge l’Ultimo. Perciò si dice che per unità di Dhyana e Prajna s’intende l’Emancipazione”. Che il Dhyana non abbia niente a che fare col semplice star seduti a gambe incrociate in meditazione, com’è generalmente supposto dai profani, o com’è stato affermato da Shen-hsiu e dalla sua scuola fino dal tempo di Hui-neng, è asserito qui nel modo più inequivocabile. Dhyana non è quietismo, né tranquillità; è invece agire, movimento, compimento di azioni, vedere, udire, pensare, ricordare; Dhyana si raggiunge dove, per così dire, non viene praticato alcun Dhyana; Dhyana è Prajna e Prajna è Dhyana, in quanto sono una stessa cosa.
Questo è uno dei temi costantemente riaffermati da tutti i maestri Zen che hanno seguito Hui-neng. To-chu Hui-hai continua: “Lasciate che vi dia un’illustrazione, in modo che il vostro dubbio possa essere chiarito e possiate sentirvi ristorati. E’ come uno specchio scintillante che riflette l’immagine. Quando lo specchio fa ciò, il suo splendore ne risente forse in qualche modo? No, esso non ne risente. Ne risente quando nessuna Immagine si riflette? No, non ne risente. Perché? Perché l’uso dello specchio lucente è scevro da affezioni e quindi la sua riflessione non viene mai offuscata. Che vi siano immagini riflesse o no, il suo splendore non subisce cambiamenti. Perché? Perché ciò che è scevro da affezioni non conosce mutamenti in nessuna circostanza. “Ancora, è come il sole che illumina il mondo. Ne subisce la luce qualche cambiamento? No, non lo subisce. Cosa accade quando non illumina il mondo? Neppure allora vi sono cambiamenti. Perché? Perché la luce è libera da affezioni e perciò, sia che illumini degli oggetti, sia che non li illumini, la luce intatta del sole è eternamente al di sopra del mutamento. “Ora, la luce che illumina è Prajna e l’immutabilità è Dhyana. Il Bodhisattva usa Dhyana e Prajna nella loro unità e così raggiunge l’illuminazione. Perciò si dice che usando Dhyana e Prajna nella loro unità s’intende l’emancipazione. Vorrei aggiungere che essere liberi da affezioni significa l’assenza delle passioni e non quella delle nobili aspirazioni (che sono scevre dalla concezione dualistica dell’esistenza) Nella filosofia Zen, di fatto in tutta la filosofia buddhista, non si fanno distinzioni tra termini logici e termini psicologici e gli uni si traducono negli altri abbastanza facilmente. Dal punto di vista della vita, tali distinzioni non possono esistere, perché qui la logica è psicologia e la psicologia è logica. Per questa ragione la psicologia di Ta-chu Hui-hai diviene logica con Shen-hui, ed entrambi si riferiscono alla stessa esperienza. Si legge nei Detti di Shen-hui): “Uno specchio lucente è collocato su un alto piedistallo; la sua luce raggiunge le diecimila cose, che tutte si riflettono in esso. I maestri usano considerare questo fenomeno come straordinariamente meraviglioso. Ma per la mia scuola, esso non è da considerarsi meraviglioso. Perché? Questo specchio lucente raggiunge con la sua illuminazione le diecimila cose, e queste diecimila cose non si riflettono in esso. Ecco ciò che io chiamerei straordinariamente meraviglioso. Perché? Il Tathagata discrimina tutte le cose col non-discriminante Prajna (chih). Se egli avesse qualche intelletto discriminante, credete che potrebbe discriminare tutte le cose? Il termine cinese per ‘discriminazione’ è fen-pieh, che è una traduzione del sanscrito wikalpa, uno dei termini buddhisti importanti, usati in vari Sutra e Sastra. Il significato originale dei caratteri cinesi è “dividere e tagliare con un coltello’, che corrisponde esattamente all’etimologica del sanscrito viklpa. Per ‘discriminazione’ s’intende perciò conoscenza analitica, la comprensione relativa e sconnessa che usiamo nei nostri quotidiani rapporti della vita, e anche nei nostri pensieri altamente speculativi. Poiché l’essenza del pensiero è di analizzare – ossia discriminare – più afflato è il coltello di dissezione, più sottile sarà la speculazione che ne risulta. Ma secondo il modo di pensare buddhista o, piuttosto, secondo l’esperienza buddhista, questo potere di discriminazione è basato sul non-discriminante Prajna (chih o chih-hui). Questo è ciò che vi è di più fondamentale nell’umano intelletto ed è con questo che siamo in grado di vedere addentro nell’autonatura, che tutti noi possediamo e che è anche conosciuta come natura del Buddha. In verità Autonatura è il Prajna stesso, come è già stato ripetutamente affermato. E questo Prajna non-discriminante è ciò che è scevro da affezioni, termine usato da Ta-chu Hui-hai per caratterizzare lo specchio-mente. Pertanto, ‘Prajna non-discriminante’, scevro da affezioni’, ‘ab initio nessuna cosa è’, sono tutte espressioni che indicano una stessa fonte, che è la sorgente dell’esperienza Zen.
Ora il problema è il seguente: Com’è possibile alla mente umana passare dalla discriminazione alla non-discriminazione, dalle affezioni all’assenza di affezioni, dall’essere al non-essere, dalla relatività al vuoto, dalle diecimila cose alla natura-specchio senza contenuto, o Autonatura, o per usare l’espressione buddhistica, dal mayoi (mi in cinese), al satori Come questo passaggio sia possibile è il grande mistero non solo del Buddhismo, ma di tutte le religioni e le filosofie. Finché questo mondo, così com’è concepito dalla mente umana, è il regno degli opposti, non vi è modo di sfuggirvi e di entrare in un mondo di vuoto, dove è da supporre che tutti gli opposti si fondano. Cancellare le moltitudini, indicate come le diecimila cose, allo scopo di vedere addentro nella stessa natura-specchio, è un’impossibilità assoluta.
Eppure tutti i buddhisti cercano di riuscirvi. In termini filosofici il problema non è posto in modo appropriato.
Non è il cancellare le moltitudini, non è il passare dalla discriminazione alla non-discriminazione, dalla relatività al vuoto, ecc. Dove si accetta il processo di cancellatura, l’idea è che quando la cancellatura è completa, lo specchio mostra il suo originario splendore e perciò il processo è continuo, lungo la stessa linea di moto. Ma sta di fatto che questo stesso cancellare è l’opera dell’originario splendore. originario’ non ha riferimento al tempo, nel senso che lo specchio era, una volta nel suo remoto passato, puro e incontaminato e che, poiché ora non lo è più deve essere lucidato per restituirlo al suo primitivo splendore. Lo splendore è sempre là, anche quando si crede che lo specchio sia ricoperto di polvere e non rifletta più gli oggetti come dovrebbe. Lo splendore non è cosa che debba essergli restituita; non è cosa che appare al termine del processo; esso non è mai scomparso dallo specchio.
Questo è ciò che s’intende quando il T’an-ching e altri scritti buddhistici affermano che la natura del Buddha è la stessa in tutti gli esseri, in quelli ignoranti come in quelli sapienti. Poiché il raggiungimento del Tao non indica un continuo procedere dall’errore alla verità, dall’ignoranza all’illuminazione, dal mayoi al satori, i maestri Zen proclamano tutti che non vi è alcuna illuminazione che sia possibile affermare di aver raggiunto. Se affermate di aver raggiunto qualcosa, questa è la prova più sicura che vi siete smarriti. Perciò, non avere è avere, il silenzio è tuono; l’ignoranza è illuminazione; i santi discepoli del sentiero della Purezza vanno all’inferno, mentre i Bhikshu che violano i precetti, raggiungono il Nirvana; spolveratura vuol dire accumulo di sporcizia; tutti questi detti paradossali – e la letteratura Zen ne è piena – non sono che altrettante negazioni del moto continuo dalla discriminazione alla non-discriminazione, dalla possibilità di essere affetti alla non possibilità di essere affetti, ecc. ecc. L’idea di un continuo movimento non riesce a spiegare fatti quali. primo, che il corso del moto si ferma allo specchio splendente originario e non fa altri tentativi per continuare all’infinito; secondo, che la pura natura dello specchio si lascia contaminare, cioè a dire che da un oggetto diviene un altro oggetto assolutamente contraddittorio. Per dirla in altro modo: la negazione assoluta è necessaria, ma è possibile allorché il processo è continuo? Questa è la ragione per la quale Hui-neng persiste nel contestare la concezione tanto cara ai suoi oppositori. Egli non adotta la dottrina della continuità che si identifica con la Scuola Graduale di Shen-hsiu. Tutti quelli che accettano l’idea di un moto continuo appartengono a questa scuola. Hui-neng, d’altro canto è il campione della Scuola Improvvisa. Secondo questa scuola, il passaggio dal mayoi al satori è improvviso e non graduale, distinto e non continuo. Che il processo d’illuminazione sia improvviso, significa che vi è un salto, logico e psicologico, nell’esperienza buddhistica. II salto logico è che il comune processo di ragionamento si arresta di colpo, e si percepisce che quanto era stato considerato irrazionale è perfettamente naturale. Il salto psicologico è che i limiti della coscienza vengono sorpassati e ci si trova immersi nell’inconscio che non è, dopo tutto, inconscio.
Questo processo è discontinuo, improvviso e assolutamente incalcolabile; questo è “Vedere nella propria Autonatura”. Da qui la seguente osservazione di Hui-neng: “O amici, mentre studiavo sotto Jen, il Maestro, io ebbi un satori (wu), semplicemente con l’ascoltare una sola volta le sue parole, e improvvisamente vidi addentro la natura originaria dell’Assoluta Essenza. Questa è la ragione per cui desidero che questo insegnamento venga propagato, di modo che coloro che cercano la verità possano anch’essi avere un’improvvisa percezione del Bodhi, possano vedere ognuno di per sé che cos’è la propria mente, che cos’è la propria natura originaria…
Tutti i Buddha del passato, presente e futuro e tutti i Sutra appartenenti alle dodici divisioni sono nell’autonatura di ogni individuo, là dove erano dal principio. … Vi è dentro ognuno di noi ciò che sa e da questo si ha un satori. Se nasce un pensiero erroneo, ne conseguono falsità e perversioni, e nessun estraneo, per quanto saggio, può istruire dall’esterno tali persone che sono in verità al di là di ogni aiuto. Ma se avviene un’illuminazione per mezzo di genuino Prajna, tutte le falsità svaniscono all’istante. Se la propria autonatura viene compresa, il proprio satori basta a far ascendere a uno stato di buddhità.
O, amici, quando di questo non-legame vi è un Uso simultaneo (di Dhyana e Prajna). Il Bodhisattva sa sempre come fare Uso del vuoto, e con ciò raggiunge l’Ultimo. Perciò si dice che per unità di Dhyana e Prajna s’intende l’Emancipazione”.
Che il Dhyana non abbia niente a che fare col semplice star seduti a gambe incrociate in meditazione, com’è generalmente supposto dai profani, o com’è stato affermato da Shen-hsiu e dalla sua scuola fino dal tempo di Hui-neng, è asserito qui nel modo più inequivocabile. Dhyana non è quietismo, né tranquillità; è invece agire, movimento, compimento di azioni, vedere, udire, pensare, ricordare; Dhyana si raggiunge dove, per così dire, non viene praticato alcun Dhyana; Dhyana è Prajna e Prajna è Dhyana, in quanto sono una stessa cosa.
Questo è uno dei temi costantemente riaffermati da tutti i maestri Zen che hanno seguito Hui-neng. To-chu Hui-hai continua: “Lasciate che vi dia un’illustrazione, in modo che il vostro dubbio possa essere chiarito e possiate sentirvi ristorati.
E’ come uno specchio scintillante che riflette l’immagine. Quando lo specchio fa ciò, il suo splendore ne risente forse in qualche modo? No, esso non ne risente. Ne risente quando nessuna Immagine si riflette? No, non ne risente. Perché? Perché l’uso dello specchio lucente è scevro da affezioni e quindi la sua riflessione non viene mai offuscata. Che vi siano immagini riflesse o no, il suo splendore non subisce cambiamenti. Perché? Perché ciò che è scevro da affezioni non conosce mutamenti in nessuna circostanza. “Ancora, è come il sole che illumina il mondo. Ne subisce la luce qualche cambiamento? No, non lo subisce. Cosa accade quando non illumina il mondo? Neppure allora vi sono cambiamenti. Perché? Perché la luce è libera da affezioni e perciò, sia che illumini degli oggetti, sia che non li illumini, la luce intatta del sole è eternamente al di sopra del mutamento.
“Ora, la luce che illumina è Prajna e l’immutabilità è Dhyana. Il Bodhisattva usa Dhyana e Prajna nella loro unità e così raggiunge l’illuminazione. Perciò si dice che usando Dhyana e Prajna nella loro unità s’intende l’emancipazione. Vorrei aggiungere che essere liberi da affezioni significa l’assenza delle passioni e non quella delle nobili aspirazioni (che sono scevre dalla concezione dualistica dell’esistenza) Nella filosofia Zen, di fatto in tutta la filosofia buddhista, non si fanno distinzioni tra termini logici e termini psicologici e gli uni si traducono negli altri abbastanza facilmente. Dal punto di vista della vita, tali distinzioni non possono esistere, perché qui la logica è psicologia e la psicologia è logica.
Per questa ragione la psicologia di Ta-chu Hui-hai diviene logica con Shen-hui, ed entrambi si riferiscono alla stessa esperienza. Si legge nei Detti di Shen-hui: “Uno specchio lucente è collocato su un alto piedistallo; la sua luce raggiunge le diecimila cose, che tutte si riflettono in esso. I maestri usano considerare questo fenomeno come straordinariamente meraviglioso. Ma per la mia scuola, esso non è da considerarsi meraviglioso. Perché? Questo specchio lucente raggiunge con la sua illuminazione le diecimila cose, e queste diecimila cose non si riflettono in esso. Ecco ciò che io chiamerei straordinariamente meraviglioso. Perché? Il Tathagata discrimina tutte le cose col non-discriminante Prajna. Se egli avesse qualche intelletto discriminante, credete che potrebbe discriminare tutte le cose? Il termine cinese per ‘discriminazione’ è fen-pieh, che è una traduzione del sanscrito wikalpa, uno dei termini buddhisti importanti, usati in vari Sutra e Sastra.
Il significato originale dei caratteri cinesi è “dividere e tagliare con un coltello’, che corrisponde esattamente all’etimologica del sanscrito.
Per ‘discriminazione’ s’intende perciò conoscenza analitica, la comprensione relativa e sconnessa che usiamo nei nostri quotidiani rapporti della vita, e anche nei nostri pensieri alta- mente speculativi. Poiché l’essenza del pensiero è di analizzare – ossia discriminare – più afflato è il coltello di dissezione, più sottile sarà la speculazione che ne risulta. Ma secondo il modo di pensare buddhista o, piuttosto, secondo l’esperienza buddhista, questo potere di discriminazione è basato sul non-discriminante Prajna.
Questo è ciò che vi è di più fondamentale nell’umano intelletto ed è con questo che siamo in grado di vedere addentro nell’auto- natura, che tutti noi possediamo e che è anche conosciuta come natura del Buddha. In verità Autonatura è il Prajna stesso, come è già stato ripetutamente affermato. E questo Prajna non-discriminante è ciò che è scevro da affezioni, termine usato da Ta-chu Hui-hai per caratterizzare lo specchio-mente. Pertanto, ‘Prajna non-discriminante’, scevro da affezioni’, ‘ab initio nessuna cosa è’, sono tutte espressioni che indicano una stessa fonte, che è la sorgente dell’esperienza Zen.
Ora il problema è il seguente: Com’è possibile alla mente umana passare dalla discriminazione alla non-discriminazione, dalle affezioni all’assenza di affezioni, dall’essere al non-essere, dalla relatività al vuoto, dalle diecimila cose alla natura-specchio senza contenuto, o Autonatura, o per usare l’espressione buddhistica, dal mayoi (mi in cinese), al satori Come questo passaggio sia possibile è il grande mistero non solo del Buddhismo, ma di tutte le religioni e le filosofie. Finché questo mondo, così com’è concepito dalla mente umana, è il regno degli opposti, non vi è modo di sfuggirvi e di entrare in un mondo di vuoto, dove è da supporre che tutti gli opposti si fondano. Cancellare le moltitudini, indicate come le diecimila cose, allo scopo di vedere addentro nella stessa natura-specchio, è un’impossibilità assoluta. Eppure tutti i buddhisti cercano di riuscirvi. In termini filosofici il problema non è posto in modo appropriato. Non è il cancellare le moltitudini, non è il passare dalla discriminazione alla non-discriminazione, dalla relatività al vuoto, ecc.
Dove si accetta il processo di cancellatura, l’idea è che quando la cancellatura è completa, lo specchio mostra il suo originario splendore e perciò il processo è continuo, lungo la stessa linea di moto. Ma sta di fatto che questo stesso cancellare è l’opera dell’originario splendore. originario’ non ha riferimento al tempo, nel senso che lo specchio era, una volta nel suo remoto passato, puro e incontaminato e che, poiché ora non lo è più deve essere lucidato per restituirlo al suo primitivo splendore. Lo splendore è sempre là, anche quando si crede che lo specchio sia ricoperto di polvere e non rifletta più gli oggetti come dovrebbe.
Lo splendore non è cosa che debba essergli restituita; non è cosa che appare al termine del processo; esso non è mai scomparso dallo specchio. Questo è ciò che s’intende quando il T’an-ching e altri scritti buddhistici affermano che la natura del Buddha è la stessa in tutti gli esseri, in quelli ignoranti come in quelli sapienti. Poiché il raggiungimento del Tao non indica un continuo procedere dall’errore alla verità, dall’ignoranza all’illuminazione, dal mayoi al satori, i maestri Zen proclamano tutti che non vi è alcuna illuminazione che sia possibile affermare di aver raggiunto. Se affermate di aver raggiunto qualcosa, questa è la prova più sicura che vi siete smarriti. Perciò, non avere è avere, il silenzio è tuono; l’ignoranza è illuminazione; i santi discepoli del sentiero della Purezza vanno all’inferno, mentre i Bhikshu che violano i precetti, raggiungono il Nirvana; spolveratura vuol dire accumulo di sporcizia; tutti questi detti paradossali – e la letteratura Zen ne è piena – non sono che altrettante negazioni del moto continuo dalla discriminazione alla non-discriminazione, dalla possibilità di essere affetti alla non possibilità di essere affetti, ecc. ecc. L’idea di un continuo movimento non riesce a spiegare fatti quali. primo, che il corso del moto si ferma allo specchio splendente originario e non fa altri tentativi per continuare all’infinito; secondo, che la pura natura dello specchio si lascia contaminare, cioè a dire che da un oggetto diviene un altro oggetto assolutamente contraddittorio.
Per dirla in altro modo: la negazione assoluta è necessaria, ma è possibile allorché il processo è continuo? Questa è la ragione per la quale Hui-neng persiste nel contestare la concezione tanto cara ai suoi oppositori. Egli non adotta la dottrina della continuità che si identifica con la Scuola Graduale di Shen-hsiu. Tutti quelli che accettano l’idea di un moto continuo appartengono a questa scuola. Hui-neng, d’altro canto è il campione della Scuola Improvvisa. Secondo questa scuola, il passaggio dal mayoi al satori è improvviso e non graduale, distinto e non continuo. Che il processo d’illuminazione sia improvviso, significa che vi è un salto, logico e psicologico, nell’esperienza buddhistica. Il salto logico è che il comune processo di ragionamento si arresta di colpo, e si percepisce che quanto era stato considerato irrazionale è perfettamente naturale. Il salto psicologico è che i limiti della coscienza vengono sorpassati e ci si trova immersi nell’inconscio che non è, dopo tutto, inconscio. Questo processo è discontinuo, improvviso e assolutamente incalcolabile; questo è “Vedere nella propria Autonatura”. Da qui la seguente osservazione di Hui-neng: “O amici, mentre studiavo sotto Jen, il Maestro, io ebbi un satori (wu), semplicemente con l’ascoltare una sola volta le sue parole, e improvvisamente vidi addentro la natura originaria dell’Assoluta Essenza. Questa è la ragione per cui desidero che questo insegnamento venga propagato, di modo che coloro che cercano la verità possano anch’essi avere un’improvvisa percezione del Bodhi, possano vedere ognuno di per sé che cos’è la propria mente, che cos’è la propria natura originaria… Tutti i Buddha del passato, presente e futuro e tutti i Sutra appartenenti alle dodici divisioni sono nell’autonatura di ogni individuo, là dove erano dal principio.
Vi è dentro ognuno di noi ciò che sa e da questo si ha un satori. Se nasce un pensiero erroneo, ne conseguono falsità e perversioni, e nessun estraneo, per quanto saggio, può istruire dall’esterno tali persone che sono in verità al di là di ogni aiuto. Ma se avviene un’illuminazione per mezzo di genuino Prajna, tutte le falsità svaniscono all’istante.
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 Suzuki La dottrina Zen del Vuoto mentale Pag. 50

Secondo Hui-neng, il concetto d’inconscio è la base del Buddhismo Zen. Di fatto, egli propone tre concetti come contenuto dello Zen, di cui uno è l’inconscio; gli altri due sono “l’informe” e il “non-permanente”. Hui-neng continua: Per “informe” s’intende essere nella forma eppur distaccati da essa; per inconscio s’intende aver pensieri, eppur non averne; quanto al “non-permanente”, esso è la natura primaria dell’uomo.
L’altra sua definizione dell’inconscio è: “O buoni amici, non avere la mente macchiata mentre è in contatto con tutte le circostanze della vita questo è essere nell’Inconscio. E’ essere sempre distaccati dalle condizioni oggettive nella propria coscienza, non lasciar risvegliare la propria mente dal contatto con le condizioni oggettive…

 

A confronto con il grande caos

Ogni tradizione sapienziale indica nella conoscenza di Sé non solo lo scopo e la meta dell’esistenza ma anche una soluzione ai problemi del vivere e una via di liberazione dalla sofferenza.
Ma sembra che ormai quasi nessuno sia in grado di capire il senso della vita e gli insegnamenti tramandati da secoli. La maggioranza delle persone non solo non persegue l’autoconoscenza e non si ferma mai ad ascoltare il sentire profondo, ma non sa neppure cosa si intenda con il termine “Sé” e, se mai, lo confonde con il curriculum vitae e con le apparenze e le maschere dell’io con cui ha ben poco ha che vedere.
Alla base di ogni cammino di maturazione verso la saggezza che permetta di vincere la sofferenza, ci sono delle conoscenze basilari che il mondo d’oggi, nel suo cammino suicida, ha del tutto dimenticato.
Oggi molti di coloro che parlano di Yoga, di spiritualità o di filosofia orientale involontariamente ne fanno spesso una parodia. Si può notare una decadenza spaventosa anche delle religioni che ormai presentano solo le ombre svuotate di senso delle verità spirituali rivelate. E mi riferisco solo a coloro che agiscono in buona fede e non agli scandali e al business che hanno corrotto gran parte di questi ambienti.
Per iniziare un percorso di autoindagine e liberazione, si dovrebbe in primo luogo riconoscere che i sensi ci ingannano e che la mente va messa a tacere e utilizzata come un semplice strumento adatto a situazioni pratiche e materiali. Se non sappiamo controllare la mente, saremo vittime di pensieri che producono soltanto ansia, divisione e conflitti.
Viviamo in un mondo di illusioni mentali e l’egocentrismo ne è il più distruttivo e immediato prodotto, ma pare che ci si stia dirigendo passivamente e ciecamente verso la distruzione e verso una sempre più fitta confusione sociale e politica, dimenticando ogni insegnamento di vera saggezza.
Purtroppo anche chi, più o meno correttamente, affronta temi filosofico-spirituali, li propone quasi sempre senza viverli e applicarli nella propria vita, come se fossero solo gli altri a doverli mettere in pratica. Ma i saggi ci hanno avvertito che una verità espressa da chi non la incarna diventa falsità, ma ci si attacca alle parole e nessuno pare farci caso.
Quando meschini interessi personali e un’angusta visione della realtà dominano gli individui, quando desideri e paure impediscono l’operare dell’intelligenza e il denaro e il mercato sono la guida collettivamente perseguita e accettata, è difficile immaginare che l’umanità sia in grado di risolvere i problemi e le pressanti sfide che si affacciano all’orizzonte.
D’altro lato non si devono dimenticare le enormi potenzialità dell’essere umano, le straordinarie capacità di rinnovamento, le vette di saggezza che in lui da secoli si sono manifestate e la realtà oggettiva di un substrato spirituale in ogni individuo.
Non è solo frutto di speranza credere che dopo la decadenza possa sorgere un nuovo splendore e come la fenice che risorge dalle sue ceneri, dal nichilismo e dalla caduta di tutti i valori possa emergere una nuova era di rigenerazione e armonia.
Numerose ricerche sull’evoluzione psichica sembrano, infatti, confermare che molto spesso i più profondi processi evolutivi sono preceduti da profonde crisi, tanto che il cammino eroico dell’autorealizzazione e della “seconda nascita” è preceduto dal confronto con il mondo infero e la morte dell’ego.
Certamente l’individuo dovrebbe impegnarsi in tutto quanto è in grado di fare per non essere travolto dalla confusione collettiva, dagli inganni delle parole, dalle contrastanti ideologie, da tutti gli “ismi” e dai condizionamenti imprigionanti che lo allontanano da una chiara percezione della realtà.
Per trovare se stessi quindi il primo passo consiste nel differenziarsi dalla coscienza collettiva.
Non si tratta, infatti, di uniformarsi a idee o di inseguire ideali, bisogna anzi liberarsi da tutto questo chiacchierio mentale. Se, come suggeriscono alcuni scienziati, l’universo assomiglia più un grande sogno che a una grande macchina ciò che conta, più che il pensiero è lo stato di coscienza e la soluzione dei problemi è il grado di risveglio.
Non sarà certo attraverso i movimenti sociopolitici, con i buoni propositi ispirati dall’ecologismo stile Greta Thumberg tanto in voga oggi, o con il moralismo, con il politicamente corretto e l’accoglienza degli immigrati che cambieranno le cose, se non avviene una rivoluzione interiore e un radicale cambiamento della coscienza individuale.
Per quanto buoni siano certi principi, non sono mai le idealizzazioni che migliorano le cose, e la storia ci mostra come proprio nel nome di Dio o nel perseguimento di ideologie umanitarie si son fatte le stragi più crudeli.
I problemi che ci assillano hanno come causa la disarmonia mentale e le reazioni che stiamo mettendo in atto per cambiare le cose sono espressione della medesima disarmonia.
Sono i confini e le barriere della mente che devono essere trascesi e per farlo dobbiamo riconoscere la frammentazione prodotta dal pensiero e ritrovare la nostra essenza che è la sola coscienza unificante. Infatti ci si integra con la natura solo comprendendo ciò che ci separa da essa e risvegliandoci a una diversa consapevolezza in cui interno ed esterno, osservatore ed osservato non sono divisi e contrapposti.
Finché viviamo in conflitto con noi stessi e in disarmonia con la vita non possiamo sperare di vedere nascere un mondo migliore.
Sinché non ci svegliamo non possiamo uscire dai brutti sogni che stiamo inconsapevolmente creando. Finché ci aspettiamo che siano gli altri a cambiare e non rivoluzioniamo le nostre prospettive alienate, sarà difficile vedere miglioramenti attorno a noi.
Siamo giunti a un punto in cui, come rivelava la Dea a Parmenide, anche la nostra intelligenza e le nostre migliori intenzioni non sono che un ostacolo alla realizzazione.
Tanti secoli fa i saggi definivano Yoga la “fine delle fluttuazioni mentali”, e l’illuminazione la comprensione di essere parte di una sola Coscienza, che trascende lo spazio e il tempo, illusoriamente frammentata nella molteplicità del divenire.
I saggi di ogni tempo e cultura insegnavano che l’essenza è Sat Chit Ananda e il mondo fenomenico Maya, e indicavano vie per il risveglio dalle illusioni mentali e per il riconoscimento che siamo animati da un principio divino, incorruttibile, che emerge dalla beatitudine del puro Essere, che è a monte di tutti i fenomeni, che li abbraccia senza che esserne contaminato.
Un inconcepibile Vuoto è il substrato reale di tutte le apparenze, un’immutabile trasparenza contiene l’illusorio divenire che la mente proietta sullo specchio della coscienza, e riconoscere che siamo questo spazio senza confini è beatitudine.
Comprendere questo può apparire, a chi non ne ha esperienza, un’astrazione lontana dal quotidiano, mentre al contrario questa presa di coscienza è indispensabile proprio per poter vivere felicemente e pienamente nel mondo delle passioni, dei desideri, del denaro, della sessualità e dell’io.
La mente ci inganna con infiniti tranelli e la soluzione è spesso paradossale, mentre con una logica lineare si finisce quasi sempre in labirinti circolari auto-contraddittori.
Ho scritto molte pagine sugli inganni dell’io-immagine con cui ci si identifica dimenticando se stessi, ma so bene che queste sono sempre parole che non bastano a risvegliare l’intuizione profonda della realtà che indicano, ed è per questo che da decenni insegno una pratica esperienziale di respirazione intensa che può condurre al silenzio mentale, alla percezione diretta e al riconoscimento del Sé cosciente come essenza indivisa di ogni cosa.
Negli anni ho raccolto centinaia di brani, di aforismi e di testi a sostegno di queste verità che appartengono alla tradizione della Filosofia Perenne, ma alfine, è con la conoscenza di Sé, che ha luogo nell’intimo di ognuno, che si giunge alla liberazione.
Questo “Sé” non appartiene al tempo e alla memoria, non è descritto dal curriculum vitae; è l’attimo non diviso in soggetto-oggetto. E’ l’hic et nunc al di fuori dello spazio e del tempo che precede il pensiero il quale crea, col ricordo e l’aspettativa, l’illusione del mondo.
Mi rendo conto che detto così sembra trascendentale e complesso mentre è la semplice realtà di questo e di ogni momento. E’ anche la fine del dolore e del conflitto. Ma chi ha voglia di riflettere a fondo sulla Realtà e sull’Essere?
Allego alcuni brani di saggezza antichi di secoli ma sempre attuali per questi tempi, come sempre di distruzione e rinascita, che indicano con le parole dei maestri questa realtà ineffabile.
Non la si trova perché non è mai stata perduta e perché proprio l’io che vuol raggiungerla è d’ostacolo alla percezione della sua spontanea e atemporale onnipresenza.
Per chi ne avesse voglia, questi antichi scritti di questo sito possono forse essere di ispirazione e il Rebirthing Transpersonale uno strumento e un’occasione per realizzarne la realtà.

Zen: Essenza della mente, di Huang-Po: https://filippofalzoni.com/mastri-cinesi-dello-zen/
Dal Tan Ching, di Hui Neng https://filippofalzoni.com/dal-tan-ching-di-hui-neng/
Mahamudra di Tilopa: https://filippofalzoni.com/mahamudra-di-tilopa/
Ego: https://filippofalzoni.com/oh-ego/?et_fb=1&PageSpeed=off

efficacia dell Rebirthing Transpersonale

La seduta di respirazione e i suoi effetti sono un processo così semplice che anche un bambino la può sperimentare con successo. La corretta applicazione del metodo è semplice ed efficace, tuttavia appena cerco di spiegare l’essenza dell’esperienza, gli argomenti che ho molto chiari in mente, messi in parole paiono complicati. Mentre mi accingo a rispondere alle domande mi è chiaro che di parole sagge ne abbiamo sentite già abbastanza. Nell’ultimo brano che ho inviato con la newsletter discutevo come gli aforismi di saggezza, finché restano solo parole, servono a poco. 
La vera comprensione e la soluzione dei problemi della mente non avvengono a livello mentale, ma è la percezione diretta della realtà obiettiva di ciò che le parole si limitano a indicare.
Nietzsche affermava che i suoi scritti non potevano essere compresi perché: “Per ciò di cui non si ha esperienza non si hanno orecchie”.

Cogliere la vita come è, senza il filtro delle concettualizzazioni, il contatto con l’intelligenza che appartiene all’energia che ci anima, sono fatti esperienziali e non concettuali. 
E’ necessario vivere in prima persona l’esperienza ineffabile dello “stato naturale”: lo stato di presenza consapevole che non vuol essere questo o quello e non s’identifica con ruoli e maschere.
Il Rebirthing Transpersonale è uno strumento efficace per andare oltre la gabbia dei pensieri e dopo aver “respirato” molti trovano comprensibile l’aforisma che prima appariva loro un arcano paradosso.
Abbiamo perso contatto con la vita perché siamo condizionati e guardiamo la realtà da una prospettiva che ci impedisce di vivere nel “qui e ora” e di esserci pienamente. Siamo frammentati e i frammenti sono spesso in conflitto tra loro.
La metafora del cervello come un computer di cui non abbiamo padronanza rende l’idea dell’incapacità umana di percepire la realtà dalla prospettiva del Sé, di sintonizzarsi con la volontà profonda, con l’anima e l’essenza.
Per cui se dovessi riassumere con una frase la mia risposta alla tua domanda sarebbe: “E’ impossibile placare la mente finché siamo identificati con il pensiero (io) e non con la Consapevolezza, con il Testimone.”
Solo una chiara percezione della realtà conduce all’armonia con la vita, all’integrazione dell’io con la totalità dell’Essere.
Come diceva Sri Nisargadatta: “Il vero Sé scaccia il falso io, tuttavia esso continua ad esistere senza contraddizione”.
Respirando possiamo calmare la mente, attivare l’energia, sintonizzarci con il presente per trascendere il pensiero e le parole e percepire la realtà dell’Essere. La mente può non volere lasciare il campo alla libertà dell’Essere perché è fortemente condizionata da secoli.
Temo che detto così possa sembrare complicato, mentre lo stato naturare, è spontaneo e privo di sforzo. Un non fare… un riconoscere la natura illusoria dell’agente del cosiddetto “io separato”. Essere veramente semplici e umani senza inseguire le mete illusorie che la mente incessantemente crea.
La vita accade spontaneamente, come spontaneamente siamo già “noi stessi” senza dover far nulla per esserlo. E non dobbiamo diventare chissà che inseguendo ideali frustranti, ma realizzare ciò che già siamo. Sii ciò che sei! 
Se seguiamo la Volontà che viene dal profondo, non c’è separazione tra pensiero e azione e siamo in presa diretta con la vita. 
E’ difficile in poche parole esprimere con concetti semplici l’ineffabile natura della coscienza.
Per questo per anni ho condiviso brani di diversi autori per integrare le prospettive e per questo scopo ho compilato le 500 pagine del volume 2 dell”’Io Trasparente” e ne ho scritte altre centinaia.
Al lettore medio che non ha esperienza diretta, anche queste parole sul “vero Sé” appariranno criptiche o astratte, mentre l’esperienza è semplice e immediata… 
Spero di essere stato in grado in queste righe di usare le parole adatte per andare oltre a esse, e di trovare sintesi chiare, comprensibili anche ai non esperti.
Se guardiamo la mente senza identificarci con le immagini mentali, se rimaniamo testimoni, e osserviamo il suo vagare con chiarezza, senza intervenire, senza volere né allontanare i pensieri, né capire perché vengono e dove portano, avviene un profondo cambiamento.
Nell’immediatezza del sentire senza alternative, creiamo le migliori condizioni perché la mente si plachi e l’intuizione ci diriga. Dobbiamo arrenderci a un’intelligenza inconscia che nasce dal silenzio. Il Testimone è il silenzio. Come il vuoto contiene le forme, così il silenzio contiene il rumore senza tuttavia perdere la propria natura. La pienezza della vita consiste appunto nell’integrazione degli opposti: Ego e Sé, vuoto e pieno, ecc.

Simboli e visioni nella Psicologia Transpersonale e Archetipica


Una delle illustrazioni con cui Jung ha decorato il Libro Rosso

Nelle tradizioni sapienziali della tradizione classica l’inconscio era concepito come un mondo metafisico e reale abitato da forze benigne e malefiche che possono influenzare e dirigere il nostro vivere. Al giorno d’oggi gli psicologi trattano in genere molto riduttivamente l’inconscio, ad eccezione delle correnti Transpersonali e Archetipiche, di cui parlo in queste righe. Il mondo degli archetipi e delle figure mistiche e mitiche che abitano il regno della psiche, sono state oggetto di studio sin dall’alba delle civiltà ed è alla base di ogni cultura e fonte di conoscenze filosofiche.
La mitologia d’Oriente e d’Occidente, Cristiana e Pagana, mostra la straordinaria ricchezza delle figure che rappresentano le energie che ci dirigono. Le religioni sono ricche di tali immagini simboliche e le visioni e ispirazioni dei fondatori sono le basi della civiltà. Mistici, yoghi, sciamani danno una descrizione di questi mondi immaginali che trova, con nomi diversi, evidenti paralleli in ogni epoca e luogo, tanto da poter riconoscere una realtà oggettiva a queste istanze psichiche. L’Oriente ha conservato opere vastissime come il Mahabharata e il Ramayana ma, oltre alle religioni sono pilastri della nostra cultura universi visionari come l’Odissea e l’Iliade, che sono espressione di questi mondi mitici nei quali l’eroe si deve confrontare con difficili prove per realizzare se stesso. Dopo il confronto con il mondo immaginale sotterraneo, come l’affrontare mostri, sconfiggere demoni, la discesa all’Ade o la salita ai cieli e simili iniziazioni, i premi per l’eroe vittorioso sono il ritorno a casa, la riconquista del regno, la rinascita, la vittoria sulla morte, il risveglio e la liberazione.

Troviamo questi temi in Egitto e in Tibet, in leggende e fiabe, nei racconti di Giasone e il vello d’oro, nei miti Orfici, il per non citare i neoplatonici come il grande Plotino e le sue Enneadi. Le visioni e le immagini che sorgono in noi spontaneamente dall’alba delle civiltà rappresentano la sorgente nascosta di verità esoteriche che il pensiero razionale non può cogliere in quanto si tratta di energie e di stati dell’essere esperienziali e non di concetti.
Nel Rinascimento abbiamo la riscoperta di culti orientali e pagani, e personaggi come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Giordano Bruno, trattano ampiamente di fantasmi psichici che la magia e la suggestione posso produrre e di poteri invisibili che ci agiscono.
Nel secolo scorso C. G. Jung ci ha lasciato un’opera grandiosa nella quale ha dato un’interpretazione al significato che hanno per la psiche i simboli religiosi e alchemici, raccogliendo in anni di studi testi medievali e gnostici di inestimabile importanza. In testi come Psicologia e Alchimia e Psicologia e Religione e altri ponderosi volumi i simboli sono tradotti in modo tale da offrire nuove prospettive e illuminanti intuizioni sul vero significato delle religioni e per comprendere gli aspetti esoterici e trasformativi delle dottrine sapienziali.
Jung ha permesso la pubblicazione del Libro Rosso 50 anni dopo la sua scomparsa, perché era certo di non poter essere compreso. I suoi dialoghi interiori con le visioni e immagini sarebbe stata interpretata dalla scienza imperante come una manifestazione psicotica. In verità si tratta di un’opera di sostanziale importanza per la Psicologia del futuro, in quanto la descrizione del rapporto dialettico che Jung ebbe con le immagini dell’inconscio in un periodo critico della sua vita è un percorso iniziatico che, benché intrinsecamente personale, rappresenta il viaggio interiore che dall’alba delle civiltà l’uomo affronta per trovare il proprio vero Sè. Questo ci induce a riconoscere che il processo psicoterapeutico è essenzialmente esperienziale, e le interpretazioni intellettuali per quanto corrette non hanno alcuna efficacia trasformativa se non sono vissute. Jung curò di rappresentare queste esperienze con dipinti che decorano il volume di grande bellezza artistica e calligrafica, molto simile a un codice miniato medievale. Un Pdf del Libro Rosso – testo in Inglese – con le bellissime immagini dipinte da Jung è visibile: https://www.dropbo RedBook.pdf.
Per fare un altro esempio, gli antropologi che hanno sperimentato sostanze psicoattive come l’Ayahuasca e il DMT, sono stati sbalorditi dal constatare che una sostanza chimica può condurre in mondi abitati da presenze dinamiche, entità di forme impensabili che si manifestano per dare il benvenuto e offrire insegnamenti su sconosciute dimensioni dello spazio tempo, sulla natura della coscienza e del cosmo. (Vedi T. McKenna).
Anche queste esperienze confermano la realtà immateriale, ma attiva e operante, di questo mondo potente e vastissimo cui possiamo accedere solo in particolari stati di coscienza. Per ritornare a esperienze comuni, come non ricordare la fantasmagoria di immagini che si possono manifestare nei sogni che occasionalmente rappresentano epifanie stupefacenti e cariche di significato e di precognizione.
Lo studio dei sogni, ovviamente, non inizia nel ‘900 con Freud ma ha radici antichissime, e non solo come mezzo per cogliere presagi, viaggiare nello spazio e nel tempo o per comunicare con i defunti, ma anche come percorso di guarigione. Nell’antica Grecia la terapia passava attraverso il sogno e Terapeutas era colui che assisteva alla guarigione. Il malato era condotto in un tempio sotterraneo dove sarebbe stato guidato da esperti sacerdoti a entrare in un sonno profondo durante il quale la divinità poteva guarirlo attraverso un sogno. Tale metodica era detta “incubazione” e si dice che Jung stesso avesse accesso al mondo visionario che ha descritto, con questa pratica di distacco della mente da tutti i pensieri verso una specie di sonno vigile in cui si può partecipare coscientemente ai sogni. Potrei andare avanti per molte pagine a citare autori che si sono dedicati allo studio di queste realtà ormai rimosse dalla cultura contemporanea, da Neumann a Eliade e in particolare la Psicologia Archetipica di J. Hillman che ha cercato di cogliere la rivelazione che sta alla base del pensiero di Jung, assieme al lavoro e agli scritti di Sonu Shamdasani che ne ha curato l’opera e studiato la vita e le origini del suo pensiero nel modo più minuzioso e profondo. (Per chi desidera approfondire metto in fondo una piccola bibliografia dei testi consultati.)
In anni recenti nell’opera di Peter Kingsley ho trovato un’ennesima attendibile testimonianza che le radici della nostra cultura e il pensiero dei grandi filosofi alla base della nostra logica sono scaturiti da esperienze in stati di coscienza che trascendono il pensiero, in cui l’io del filosofo scompare ed egli è posseduto da una superiore consapevolezza, la si chiami Daimon, Atman, Sé, o Logos… Kingsley dimostra con appassionanti studi storici come i filosofi presocratici iniziati ai misteri portassero dall’esperienza nell’altra realtà una visione che distruggeva la comune percezione condivisa dagli uomini, che la si chiami Avidya, Maya o inganni dell’io. In stati di assorbimento interiore i filosofi incontravano gli dèi che mostravano loro una realtà indivisa senza tempo oltre la mente, la nascita e la morte, senza creazione né distruzione.
Posseduti dal contatto con la divinità erano iniziati alla percezione della realtà atemporale, all’attimo eterno, alla coscienza indivisa dell’Uno primordiale da cui siamo emanati… Queste esperienze interiori erano la chiave della saggezza e della comprensione dei problemi umani. Kingsley mostra chiaramente come tutto questo non è stato compreso poiché non si tratta di concetti astratti ma di stati di coscienza non ordinari di consapevolezza unitaria oltre all’ego, inesprimibili con le parole. Cercando di razionalizzare il messaggio esso diventa oscuro, ed è per questo che abbiamo perduto le radici di saggezza della nostra stessa cultura e siamo prigionieri del pensiero frammentato.
Nei secoli gli studiosi di Parmenide invece di cercare l’iniziazione all’altra realtà da cui egli aveva tratto la conoscenza, si sono limitati a discutere sulle sue parole come il fondatore del pensiero “razionale”, trascurando due aspetti fondamentali del suo modo di accedere alla conoscenza: Metis e Elenchos. Metis è la particolare qualità di intensa consapevolezza che senza sforzo può essere consapevole di tutto all’istante. Mentre le nostre menti vaganti se ne vanno nei loro viaggi senza fine, essa sta sempre a casa. E la sua casa è ovunque. Metis, sente, ascolta, osserva… (Sembrano parole di Krishnamurti sull’attenzione non divisa). Il termine Elenchos rappresenta la capacità di comprendere e comunicare in modo convincente le verità ispirate dalla dea.
Ecco alcune righe tratte da una libera traduzione del libro: “Reality”, pag. 153, Cap. 12, Scrive Kingsley:
“Il fatto che entrambi Parmenide e Socrate abbiano dato particolare importanza al processo di elenchos è molto significativo considerando che sono spesso visti come i due grandi padri della filosofia. E potrebbe sembrare sorprendente che questa corrispondenza non sia mai stata considerata e compresa. Ma a un esame più attento possiamo capire perché pochi hanno voluto farlo. La pratica di elenchos non era una questione di scelta personale o di soddisfazione per Socrate. I resoconti concordano che ha fatto ciò che ha fatto, spinto da un comando divino: gli era stato ordinato di farlo dagli dei. Parmenide, spiega che il processo di elenchos gli fu rivelato da un essere divino. Anche lui non aveva alcuna scelta in merito. Gli fu dato il divino comando di riportare ciò che era stato mostrato in un altro mondo, oltre al mondo dei viventi; ed è questo esattamente quello che fece. I due padri fondatori di una filosofia “razionale” invero stavano entrambi portando avanti una missione per conto degli dei. Per tutta la sua vita Socrate continuò a ricevere la guida divina che lo aveva portato innanzitutto alla pratica dell’elenchos. Ci arrivò attraverso oracoli, ma soprattutto attraverso i sogni. Per quanto riguarda Parmenide: le prove lo connettono con un lignaggio di sacerdoti esperti di incubazione e dell’evocare la guida divina attraverso i sogni. E il poema che espone il suo insegnamento su elenchos è il risultato diretto di un’incubazione, esperienza che lo ha portato faccia a faccia con la dea. Troviamo lo stesso processo di base che si ripete da secoli, più tardi, con i cosiddetti scrittori ermetici in Egitto, che lasciarono testi che registrano la conoscenza divina ricevuta in stati di incubazione, che poi sono stati incaricati di rendere disponibile agli altri esseri umani. Per tornare all’essenziale: il nocciolo del processo di elenchos mostrato a Parmenide dalla dea consisteva nel fatto che gli uomini e le donne “non sanno nulla”. “Non sapere nulla”. Il cuore del messaggio di Socrate e lo scopo incrollabile dei suoi elenchos era di mostrare alle persone che non sanno niente. Non c’era speranza di conoscenza reale senza prima aver accettato e compreso questo. Gli elenchos di Socrate presero la forma molto particolare nel fare sì che le persone con cui parlava si contraddicessero: rivelare che nonostante la loro apparente conoscenza, erano completamente in autocontraddizione con sé stessi. Per Parmenide e Socrate, l’umana condizione mostra che siamo totalmente in contraddizione con noi stessi – viviamo, camminiamo in auto contraddizione – e tutta la nostra intelligenza e le migliori intenzioni peggiorano soltanto la situazione”…
L’uomo nell’antichità percepiva una coscienza che permea e trascende la natura, mentre lo scientismo moderno riduce tutto a materia e non considera reale ciò che non è misurabile… L’inconscio è tutto ciò che si muove in noi al di fuori del raggio della nostra consapevolezza, e la nostra consapevolezza ordinaria è molto superficiale, spesso è un chiacchierio legato a fatti quotidiani di nessuna importanza, a desideri e timori e dalla ricerca di sicurezza e piacere. Raramente ascoltiamo i moti profondi dell’animo e siamo all’oscuro di tutti i processi fisiologici che si svolgono naturalmente senza la nostra partecipazione. Anche la respirazione, che è una funzione sia volontaria, sia involontaria, è quasi sempre meccanica ed estranea al nostro sentire. E’ inconscia l’eredità non solo fisica e cromosomica, ma anche culturale di tutti gli antenati e non ci rendiamo conto di essere espressione dell’inconscio collettivo che domina il nostro sentire sino a quando, attraverso l’autoindagine, ci differenziamo da esso esprimendo le nostre autentiche peculiarità. Dentro di noi, oltre i confini angusti della memoria e dell’io fenomenico, ci sono le radici profonde dell’Essere, l’afflato dello Spirito e del Soffio che ci tiene in vita e che ci anima come consapevolezza. Scendendo consapevolmente sino a queste radici della coscienza si giunge alla meta di ogni ricerca metafisica e conoscenza di Sé, cioè all’Unità che è l’Alpha e l’Omega e l’integrazione di Yin e Yang.
E’ l’armonia e la pienezza che nasce dall’integrazione degli opposti, maschile e femminile, Essere e divenire, vuoto e forma, il Sé e l’io. Al giorno d’oggi c’è molta confusione su questo tipo d’esperienze, da un lato l’umanità è sempre più imprigionata dal pensiero razionale materialista e dalla natura meccanica della società, dall’altro si nota che, a parte alcune ottime pubblicazioni che permetterebbero una seria guida alla conoscenza, c’è un proliferare di correnti pseudo spirituali che insegnano una parodia di ogni vera esperienza metafisica. Le follie dei falsi maestri che plagiano i creduloni ha disgustato molti, tanto che a sentir parlare di visioni spirituali si sospetta subito qualcosa di malato.
Nell’attuale decadenza culturale a volte si confondono prodotti della fantasia e dell’auto suggestione per autentiche esperienze psichiche, oppure ci si rifiuta del tutto di prendere in considerazione il mondo dell’anima. Ho trattato in altre pagine la cosiddetta “pre-trans fallacy” ovvero la confusione tra le esperienze pre-egoiche con le esperienze transegoiche, delle prerazionali con le transrazionali, delle pre-personali con le transpersonali, in quanto tutte appartenenti a una dimensione non egoica, personale e razionale, si possono confondere tra loro mentre sono di natura radicalmente diversa, in un caso prima della ragione nell’altro oltre la ragione, ecc. Non riconoscere questa differenza porta a considerare fantasie isteriche e le visioni di un mistico, o viceversa considerare uno stato catatonico un samadhi. Alcuni psichiatri riducono tutti gli stati meditativi a una regressione patologica e, sul fronte opposto, praticanti entusiasti ma inesperti, considerano meditazione dei momentanei stati di assenza che sono invero semplici fughe dalla realtà.
C’è poi un altro aspetto altrettanto importante: se scartiamo l’auto suggestione e le fantasie egoiche, le espressioni della psiche anche quando sono autentiche spontanee possono ingannare e produrre squilibri della personalità quando non le si coglie in modo corretto. Gli archetipi hanno caratteristiche numinose e mitiche che possono condurre chi non è preparato fuori strada in quanto l’identificare l’io fenomenico con l’archetipo è patologico. Userò l’esperienza di una partecipante a un mio seminario come esempio adatto a chiarire ciò che vorrei esprimere.
M. mi scrive dopo un recente seminario: Racconto dell’esperienza: “All’inizio della visione ero in un posto invaso da un’intensa luce gialla, dove tutti i partecipanti al seminario erano uniti con me in un canto corale di preghiera, bellissimo, erano chini, ma potenti nel canto. Lo spazio si è poi dilatato all’infinito e tutti noi eravamo nella luce di un deserto africano, ma non era caldo. Si è quindi unita a noi una folla immensa di persone vestite con una tunica color tabacco e pregavano cantando, chini anche loro. Io ufficiavo una cerimonia sacra, all’inizio ero con loro, poi non li ho più visti, ero da sola in uno spazio infinito e, dalle mie spalle, si è alzato lentamente un cobra, è andato verso il collo, è salito dalla nuca, su lungo la testa, poi sopra la testa e la sua testa era lì sopra come un piccolo ombrello che mi proteggeva, potente. Io ho iniziato ad allungarmi indietro, come fossi il cobra, (se tentassi di farlo ora mi spaccherei la schiena!). E’ andata avanti così per un po’: avevo bisogno di allungarmi indietro. Era liberatorio, potente e bellissimo. La mia parte razionale ha cominciato a dirmi che era meglio non correre rischi fisici. Quando ho smesso di chinarmi indietro, mi è arrivato un messaggio dall’alto: “hai il tuo posto, prendilo!” (è da ieri che continuo a chiedermi quale è il mio posto, cribbiolino e poi, che tipo di posto??? spirituale? devo cominciare a fare qualcosa che fino ad ora non ho mai fatto? devo andare in qualche posto? devo cambiare qualcosa nella mia vita? Falzoni illuminami per favore! Altrimenti diglielo tu a quello che mi parla di essere più chiaro! Questo è quanto. Se hai tempo, se hai voglia, mi piacerebbe leggere un tuo commento”.
La persona è una signora matura ed equilibrata, che non si è mai particolarmente interessata allo yoga o alla ricerca metafisica, e che affronta queste visioni con il dovuto distacco e ironia. Grazie alla mia presentazione del metodo ha evitato di inflazionare il proprio ego con fantasie di grandezza. Avvicinarsi senza le opportune indicazioni a questo tipo di fenomeni l’avrebbe potuta portare a considerarsi una persona davvero “speciale”, prescelta per un grande compito umanitario… Immagino quanti maestri improvvisati le avrebbero detto che aveva ricordato una vita passata in cui era una grande sacerdotessa e ora deve ritrovare tale autorevole stato. Questo è il pericolo “dell’ego spirituale”: la miglior maschera in cui nascondersi, che porta a fantasie di onnipotenza ad illusioni, frustrazioni e conflitti. Si possono comprendere questo tipo di comunicazioni che giungono dall’inconscio senza gonfiare l’ego.

Quando M. sente dentro di sé: “hai il tuo posto, prendilo!possiamo intenderlo come: “diventa ciò che sei” di Nietzsche, ovvero realizza il tuo vero Sé, vivi con autenticità, certo non è un suggerimento di diventare chissà chi. La realizzazione del Sè (l’autorealizzazione) è presagita dall’inconscio con immagini iniziatiche e mistiche che sono solo simboli di sanità. Se il soggetto immagina di essere esaltato a ruoli di grandezza mistica invece di liberarsi ed emanciparsi dall’ego per vivere in autenticità spontanea, può invece cadere in un’illusione maniacale narcisistica.
Per trovare sé stessi non c’è bisogno di immaginarie iniziazioni in monasteri segreti, né si deve diventare differenti e “spirituali”.
Si tratta della folgorante scoperta dell’illusorietà dell’io fenomenico separato dal Sé trascendente da cui emerge, che è risvegli e liberazione da pensieri e illusioni. Ci si accorge semplicemente che siamo già e da sempre ciò che cercavamo… Non cambiamo il nostro comportamento esteriore, ma non siamo più “divisi”. I conflitti io/altro, mente/corpo, coscienza/natura, son dissolti nella pienezza… Uno stato che “intender non lo può chi non lo prova”. Il risveglio si rivela una realtà assolutamente differente dall’idea che comunemente si immagina. Non assomiglia per nulla a quanto pensavamo dell’illuminazione. Non c’è nessuno che si illumini, piuttosto si dissolve il cercatore dell’illuminazione.
È la chiara percezione della realtà, senza il filtro del pensiero condizionante dall’egocentrismo. In un certo senso si potrebbe dire che non succede nulla, che non cambia proprio nulla eppure è finita la lotta, è finita la ricerca, fine del conflitto e dell’insoddisfazione. Si è dissolta la paura della morte e l’attaccamento al mutevole divenire, senza né controllo né abbandono, si vive con spontanea autenticità. Non c’è bisogno che di alcun riconoscimento da parte di nessuno, perché si vive in una straordinaria semplicità e chiarezza, senza bisogno di sostenere nessuna parte e ruolo se in naturale semplicità… Fluire con la vita perché siamo la Vita e non separati da essa, offre una straordinaria sensazione di libertà e pienezza. Al contrario chi si esalta posseduto dall’idea di incarnare il personaggio del risvegliato o del prescelto, ricade ancor più nel dualismo e in nevrosi narcisistiche. Il principale danno all’integrità dell’individuo che fraintende il messaggio spirituale è l’autoinganno che impedisce di ragionare con chiarezza in una paralisi dell’intelligenza. Per questo molti rifiutano di avvicinarsi ad argomenti metafisici, che anche la persona istruita le guarda con sospetto nel dubbio nascondano irrazionalità e follia. La ricerca di sé, invero, è un cammino difficile, ma, se da un lato possiamo vedere nel mondo la decadenza e il nichilismo, dall’altro vediamo sorgere l’alba di una nuova coscienza e un’emergente rinascita spirituale. Ed è proprio in questi tempi di rapida trasformazione che la realizzazione di sé diventa una necessità, e la sola guida sicura la troviamo nella riscoperta della saggezza perenne che nasce dalla pace mentale e dal risveglio del cuore.

FilippoFalzoni Gallerani, Milano 2019

27 agosto 1946 Mircea Eliade esule a Parigi scrive nel diario:
Penso di essere il solo a poter superare gli insuccessi a catena, le sofferenze, le malinconie, la disperazione, nel momento in cui, con uno sforzo di lucidità e di volontà, capisco che rappresentano, nel senso concreto, immediato del termine, una discesa agli Inferi. Appena uno “capisce” che sta realizzando questo smarrimento labirintico negli Inferi, sente di nuovo, decuplicate, quelle forze spirituali che credeva di aver perduto da lungo tempo. In quell’istante, ogni sofferenza diventa una “prova” iniziatica.

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